In trappola - Limbo dei portoni

Voglio che scriviate un racconto su un momento in cui vi siete sentiti in trappola. Pensate a quale sensazione avevate: un profondo senso di claustrofobia, panico o rabbia, per esempio.

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Limbo dei portoni

 

La riunione era alle 3, negli uffici di Microsoft. Mi ricordavo bene la via in cui l’edificio si trovava, ma solo vagamente quale fosse il portone esatto. Ero partito dal mio  ufficio, a piedi, con largo anticipo: dal momento che presidevo  il comitato che si sarebbe riunito nel pomeriggio, volevo avere tempo per accogliere i vari membri mentre arrivavano alla spicciolata e farci due chicchiere. Le elezioni per il rinnovo della presidenza avrebbero avuto luogo di lì a poco, e due chiacchiere potevano aiutare la rielezione.

 

Verso le 14,30 ero di fronte a un edificio con vari cartelli. E nessuno dei cartelli aveva un nome a me familiare. Non vedevo nessuna targa che indicasse Microsoft. Vedevo però, attraverso  la vetrata, che nell’androne del palazzo c’erano dei campanelli, con grande targhe di metallo che era impossibile leggere per il riverbero del sole.

 

Spinsi il portone, che si aprì con un po’ di fatica. Non ci feci caso. Arrivai di fronte ad un secondo portone, una seconda vetrata, con i campanelli a sinistra, e le grandi targhe a destra. Lessi le targhe, ma di Microsoft non c’era assolutamente traccia.

 

I campanelli erano senza nome. Diedi un’occhiata attraverso la seconda vetrata. Non vidi nessuno. Tornai sui miei passi, mi ero sicuramente sbagliato di edificio. Quello di Microsoft doveva essere l’edificio dopo. Sono tutti uguali gli edifici in questa zona.

 

Feci per aprire il portone per uscire, ma non si aprì. Tirai con forza, ma niente. Posai a terra la cartella di pelle nuova. Mi dispiaceva posarla per terra, questa era la prima volta che lo facevo, ma mi ero reso conto che ero in trappola.

 

Cominciai a tirare con tutte le mie forze. Ma non successe niente. Riflettendo sul da farsi, vidi passare John, della IBM. Stava andando alla riunione che avrei dovuto presiedere, e che sarebbe cominciata tra cinque minuti. Cazzo. Picchiai con il pugno sul portone. Si girò impaurito e mi vide. Gli spiegai attraverso il vetro il bel casino in cui ero finito. Rise, un po’ preoccupato però. Gli chiesi di avvertire gli altri che sarei stato in ritardo.

 

Tornai al secondo portone, quello che mi avrebbe dato accesso al palazzo. Spinsi con forza, ma non si apri’ niente. Suonai tutti i campanelli a caso.   Ma non successe niente. Cominciai a dare spallate al portone. Per entrare nel palazzo. Strano come la mia reazione fosse quella di penetrare ancora di più nel problema, piuttosto che cercare di uscirne.

 

Fu a questo punto che benedissi l’inventore del telefonino. Tirai fuori il fidato Blackberry e chiamai Julie, la mia segretaria. Le spiegai che cos’era successo, e le chiesi di chiamare un fabbro che potesse venire ad aprirmi la porta. Mi disse di non preoccuparmi.

 

Non appena buttai giù il telefono mi resi conto che avevo fatto una cazzata. Una volta, qualche anno fa, ero rimasto fuori di casa, senza chiavi, e avevo dovuto chiamare un fabbro che manca poco si rifiutò di aprirmi la porta, perché non avevo con me i documenti che provassero che ero il proprietario dell’appartamento in questione (il portafogli era rimasto in casa). Figuriamoci cosa sarebbe successo in questo caso: un tizio, italiano, dentro un edificio chiaramente disabitato, a Parigi.

 

Richiamai Julie, e le dissi di lasciar perdere il fabbro e di chiamare direttamente la polizia. Nel frattempo mi resi conto che i cartelloni che avevano attirato la mia attenzione fuori dall’edificio dovevano probabilmente essere di imprese immobiliari a me sconosciute. C’erano numeri di telefono. Il palazzo era vuoto, ovvio. E loro lo affittavano. Composi il primo, della società Atisreal.

 

Mi rispose una voce con un messaggio preregistrato. Gli uffici erano chiusi per ferie.

 

CAZZOCAZZOCAZZOCAZZOCAZZOCAZZO.

 

Cominciavo ad avere caldo. Tolsi la giacca del complete Boss grigio che avevo comprato un mese addietro. Cominciai a pensare che magari avevo caldo perché l’ossigeno stava cominciando ad esaurirsi. Capii subito che stavo dicendo una stronzata immonda: era vero che ero bloccato tra due porte, ma era altrettanto vero che tra le due porte c’erano almeno 70 metri quadrati. Dubito che si potesse esaurire l’ossigeno di 70m2, per dieci metri di altezza, in dieci minuti. Altrimenti sarei morto da un pezzo in casa mia. Che non e’ 70 metri quadrati (magari, a Parigi…) e non ha I soffitti di dieci metri (menomale, sai sennò le bollette..)

 

Provai il numero del secondo cartellone. Ancora una volta un messaggio preregistrato che mi chiedeva di immettere il numero di riferimento o l’indirizzo dell’immo bile per il quale si chiamava. Non avevo né l’uno, né l’altro. Mi mancava il numero civico.

 

CAZZOCAZZOCAZZOCAZZOCAZZOCAZZO.

 

Provai il numero sul terzo cartellone. Rispose qualcuno. Spiegai alla signorina che cos’era successo. E m’immaginai, mentre mi sentivo parlare, che cosa stesse pensando, e come la mia storia suonasse completamente irreale.

 

Pronto, buongiorno, mi chiamo Piero Fardo. La chiamo perché sono rimasto bloccato in un edificio che credo la vostra azienda si occupi di affittare. Mi trovo in Rue des Carmelitains,  non so il numero. Pensavo questo fosse l’edificio della Microsoft, dove avevo un appuntamento, sono entrato, ma poi non sono piu’ potuto riuscire.

 

Si’ la porta era aperta. La prima porta, voglio dire. La seconda no.

 

Glielo sto dicendo: era aperta. Crede che l’abbia sfondata per entrare in un edificio vuoto?Perché la starei chiamando, scusi? Se l’avessi sfondata, potrei uscire da qui, no?

 

Senta, io la capisco, sembra una storia assurda, ma magari non è che ha le chiavi dell’edificio e può venire ad aprirmi o mandare qualcuno che apra?

 

Perfetto, le do il mio numero. Mi faccia sapere, la prego. Nel frattempo ho chiamato anche la polizia.

 

Beh, che voleva che facessi? Vorrei uscire al più presto da qui.

 

La polizia arrivò esattamente nello stesso momento di Julie. Stupida come una pietra, a volte, la cara Julie, ma stavolta era venuta a farmi compagnia. Sembravamo in uno di quei film dove un carcerato parla ai liberi attraverso un vetro.

 

Il poliziotto ovviamente non ci poteva credere. Ripetei la storia raccontata all’agente immobiliare, e dissi che piuttosto che chiamare un fabbro – che avrebbe comunque chiamato la polizia – avevo preferito chiamare loro direttamente.

 

Mi chiesero i documenti. Non potevo ovviamente passarglieli, ma glieli mostrai attraverso il vetro. Presero nota e tornarono alla macchina, ovviamente per fare dei controlli sul nome e il resto. I controlli fortunatemente parvero andare bene, perché di lì a poco il poliziotto tornò e mi disse che aveva parlato con l’agenzia immobiliare e che avrebbero mandato qualcuno al più presto.

 

Ma pareva proprio di no, invece.

 

Perché proprio nel momento in cui il poliziotto mi stava spiegando queste cose, il mio telefonino squillò. Era il proprietario dell’edificio.

 

Chi ero?

Com’ero entrato nella sua proprietà?

Perché ci ero entrato, se era vuota?

Cosa stavo cercando di ottenere?

 

Spiegai nuovamente la storia: cercavo di andare ad una riunione del cazzo e mi sono sbagliato di edificio e questo cazzo di edificio mi ha imprigionato e sono in trappola e secondo lei ho secondi fini?

 

Gli dissi che avevo la polizia di fronte. Mi chiese di farcelo parlare. Come cazzo faccio a fartici parlare, brutto coglione, se io sono dietro a questa cazzo di porta e il poliziotto  è fuori?

 

Penso che il mio tono alterato sortì qualche effetto. Mi disse che avrebbe mandato il “suo uomo”.

 

Mi sentivo come in uno zoo: fuori, nel mondo reale, la gente passava. Molti dei passanti ignoravano che ci fosse qualcuno imprigionato proprio di fianco a loro. Il poliziotto e Julie chiacchieravano fuori, aspettando un recupero annunciate, ma che tardava parecchio.

 

Pensai a come si dovessero sentire gli speleologi quando a volte rimanevano intrappolati in caverne buie e lontane, dove il blackberry è utile come un una mazza da golf per giocare a calcio.

 

Pensavo al tempo che passava, che per la prima volta in molti mesi mi vedeva completamente immobile, senza far niente. Non stavo correndo a una riunione, non stavo preparando una riunione,  non stavo partecipando a una riunione, non stavo stilando una strategia di mercato per i prossimi cinque anni, non stavo scrivendo una presentazione che giustificasse un aumento del budget del 5% l’anno prossimo. E poi non stavo tagliando l’erba, non stavo preparando la cena, non stavo leggendo una favola a mia figlia, non stavo consigliando mia moglie su come regolarsi con la sua capa stronza, non stavo aiutando il figlio del vicino a rimettere a posto la catena della bicicletta…Non stavo. Punto. Anzi, forse l’unica cosa che stessi facendo era proprio stare. Stavo lì. E aspettavo.

 

Mentre mi perdevo in queste elucubrazioni, arrivò il Salvatore. Era vestito come un accattone. Pantaloni a quadri macchiati in vari punti, larghi e trucidi. Sandalo aperto, a strappo, con calzini che molto tempo fa avrebbero forse potuto essere bianchi. Una maglia stile indiano, da santone, con i peli che uscivano dallo scollo a V. Vari braccialetti etnici. Capelli lunghi, con broccoli biondi striati di bianco.

 

In cirostanze normali lo avrei guardato con profondo odio. Qui lo amai. Arrivò con l’ascensore, dall’interno, e aprì la porta. Lo ringraziai,gli spiegai ancora una volta cos’era successo, ma si vedeva che non si fidava. Provò ad aprire la porta bloccata, e mi chiese ancora come avessi fatto ad aprirla se ora era bloccata.

 

Avrei voluto prenderlo a testate, a quell punto, e cercare di spiegargli il concetto di PRIMA e DOPO: PRIMA non era bloccata, DOPO si è bloccata. Sai il concetto del tempo? Cazzo, era così difficile da capire?

 

La polizia, dall’esterno, vide il fricchettone. Si avvicinò alla porta, e discussero sul fatto se fosse tutto a posto o no. Che cazzo volesse dire, davvero, non lo so: per caso, potevano giungere alla conclusione che no, non era tutto a posto? E se l’avessero fatto, che cazzo avrebbe voluto dire? Mi avrebbero lasciato allora nel limbo dei portoni per sempre?

 

Il fricchettone tirò fuori dai pantaloni lerci un telefonino di un modello talmente vecchio che ormai neanche gli immigrati clandestini che vengono dall’Africa nera accetterebbero di usare.

 

Mistriosamente, funzionava. Capii che aveva chiamato il proprietario, che evidentemente voleva sapere chi fosse il pericoloso infilitrato che era entrato nel suo palazzo, sfondando – secondo lui – la prima porta, ma non riuscendo a sfondare la seconda, e poi restando bloccato, e chiamando la polizia.

 

Si chiarirono. Raccattai la cartella e la giacca (che non si erano impolverate, per fortuna) e seguii il Salvatore fricchettone all’interno dell’edificio. Prendemmo l’ascensore e andammo nel garage. Da li’, direttamente fuori, salendo su una rampa ai cui lati ovviamente dovevano esserci dei sensori che fecero aprire la saracinesca.

 

Ringraziai. Nel salutarmi, il fricchettone mi disse “se la prossima volta ti risuccede, sfonda anche la seconda porta e poi esci dal garage”.

 

Gli sorrisi, ripromettendomi di scoparmi sua moglie a spregio, se mai avessi la fortuna d’incontrarla, e andai alla riunione. Che nel frattempo era finita

2 comments:

Anonymous said...

Letto!Sull'ultima riga, in un primo momento, sono rimasta perplessa: ma che stronzo questo qui che poi vuole prendersela con la moglie di un tizio, che a me, sembra proprio simpaticissimo. Poi ho pensato che Fardo è l'umano stronzo dell'ordinario presente. Così il cerchio si chiude perfettamente, proteggendo al suo interno i monili rassicuranti del giovane uomo impermeabile ai segni (forse benevoli) del fato.
Anche io mi sono ritrovata, molto tempo fa, in una situazione analoga; imprigionata all'uscita in un edificio palladiano, concio umido e scuro. Davati a me il lago di notte e una pesantissima porta a vetri , chiusa, bloccata e il pulsante su cui era scritto premere, non funzionava. Avrei dovuto rifare le scale, salire al secondo piano e farmi aprire dalle impiegate che avevo appena lasciato. Ma, io allora, avevo problemi con le scale, che praticavo usando solo la gamba destra. Disperatissima rimasi lì a guardarmi attorno e alzando gli occhi sul soffitto incontrai un gigantesco Prometeo neoclassico, legato alla roccia, ferito e sanguinante dalle beccate dell'aquila... che posto! Rischiacciai tutti gli interruttori e finalmente quella pesantissima si aprì.
Ritornando al tuo racconto, il senso mi sembra proprio quello che Schiller, due secoli fa riassumeva così:Date al cristallo la facoltà d'immaginazione, e il suo massimo progetto sarà la cristallizzazione del mondo, e la sua divinità sarà la più bella forma di cristallo.
Ciao, Miriam
Leggerò anche gli altri

Demonio Pellegrino said...

sono contento di aver una lettrice come te!