Vie di fuga

Ho baloccato con questo racconto lungo per molti mesi. Ve lo lascio qui, a mo' di epitaffio. Non e' ancora finito, ma non vuol dire che non abbia un senso.


Vie di fuga


1

La mattina del 22 ottobre il cielo era terso e faceva freddo. I grattacieli grigi, rossi, bianchi si stagliavano su uno sfondo azzurro scuro che li rendeva irreali. Le luci della citta' si sarebbero spente di li' a poco. Lo scenario per i primi dieci minuti di traffico cittadino non avrebbe potuto essere dei migliori.

Sull'autostrada, nel silenzio della propria auto, Jack ripassava mentalmente la lista di cose che avrebbe dovuto fare di li' a poco: la revisione del comunicato per la settimana della salute; la revisione di alcuni cartelloni da appendere in bacheca sulle misure preventive per ridurre la possibilita' di contagio della febbre suina (lavatevi le mani sempre dopo aver starnutito; se hai il raffreddore, NON portare i tuoi germi in ufficio: lavora da casa! e ammazza solo i tuoi familiari, pensava Jack); la stesura di un memo interno sulla possibile vendita di una parte della business unit. Ecco, soprattutto quest'ultima cosa gli avrebbe portato via sicuramente un paio d'ore.

Perso tra questi pensieri, Jack arrivo' piu' rapidamente del solito all'uscita 12 dell'autostrada, la sua. Il traffico sembrava scorrere molto velocemente, e se ne rallegro'.

I colori d'autunno stavano facendo un ottimo lavoro nel cambiare vestito al paesaggio. Gli alberi che avevano formato l'avanguardia rossa gia' ai primi di ottobre erano stati ormai raggiunti da tutti gli altri. Non era il Rhode Island, con i suoi ottobri rossi e gialli sogno, ma anche qui l'autunno sapeva stupire.

L'ufficio della compagnia per la quale Jack lavorava, la MegaCorporation Inc., era in un casermone grigio a tre piani, simile a cento altri della periferia di Chicago. Dall'esterno ogni piano era di una sfumatura di grigio diversa, dalla piu' scura in basso, alla piu' chiara in alto. Era brutto, e gli faceva pensare a una nave spaziale sgraziata. Se gli alieni avessero avuto delle navi spaziali netturbine, probabilmente la forma sarebbe stata questa, ripeteva Jack a sua moglie.

La bruttezza esterna aveva una diretta corrispondenza all'interno dell'edificio: un labirinto di muri grigi di diversa tonalita', una serie di uffici (loculi?) molti dei quali senza una finestra esterna. Mobilio di legno scuro, per lo piu', vecchio e scheggiato. Divieto assoluto di appendere quadri o qualsiasi altra decorazione suscettibile di creare problemi per la sicurezza dei dipendenti, recitava uno dei cartelli nella bacheca appena entrati. Jack si era sempre chiesto quale fosse il vero significato del cartello: forse i quadri appesi ai muri avrebbero fatto capire agli impiegati la merda di edificio in cui erano, e la cosa avrebbe provocato un'isteria di massa. Chissa'.

A Jack piaceva l'ultima parte del percorso per arrivare aal suo ufficio: poco prima dell'ultima curva la strada era magnifica: delle colline belle, anche se artificiali, prati verdi con qualche albero sparso, nascondevano alla vista i vari edifici aziendali che si susseguivano in circolo come pietre di un rosario. Alcuni colleghi gli avevano detto che in realta' le colline che gli piacevano tanto erano delle discariche ricoperte. Ma Jack aveva accolto la notizia con una scrollata di spalle. Pensava che il risultato fosse bello davvero. Proprio come i seni rifatti, a volte: chi se ne fregava se erano rifatti se erano rifatti bene?

All'ultima curva prima del suo edificio, getto' uno sguardo allo Starbucks dove molti dei suoi colleghi si fermavano la mattina per rifornirsi della loro dose di blanda caffeina. Sembrava esserci meno gente del solito, e tra le automobili parcheggiate non ne riconobbe nessuna dei suoi colleghi.

Al verde del semaforo, Jack svolto a sinistra, e costeggiando la fila di sequoie piantate da non piu' di un paio d'anni (quanto avevano speso per piantarle gia' cosi' grandi, ecco dove vanno le mie tasse), entro' nel vialetto che lo avrebbe portato al suo ufficio. Destra, una mezza curva a sinistra, destra ancora, e poi l'ultima curva a sinistra, e finalmente avrebbe visto gli ultimi due piani del netturbino interspaziale.

Solo che quella mattina del 22 Ottobre l'edificio non c'era.

Jack penso' di aver sbagliato strada. Sicuramente aveva imboccato un vialetto sbagliato: i mille pensieri per la testa lo avevano fatto entrare nel vialetto dopo il suo, quello che portava al sito in costruzione. Era ovvio. Anche se gli sembrava che l'edificio in costruzione fosse comunque in stadio molto piu' avanzato: qui non c'era proprio niente, solo sterpaglia, come se i lavori non fossero neanche cominciati.

Fece retromarcia con la sua auto, una Ford Escape del 2005, e ritraccio' il suo cammino fino all'imbocco della strada principale. Svolto' poi a destra per andare a prendere il vialetto giusto. Solo che si rese subito conto che il vialetto giusto era proprio quello da cui era appena uscito: lo Starbucks era proprio li' a 200 metri; il distributore di benzina Marathon con la benzina a 2.49$ a gallone era li' anche lui; il negozio di caccia e pesca c'era anche quello.

Jack penso'di essere molto stanco. Rise un risolino di autocommiserazione, anche se sulla nuca un leggero brivido gli fece capire che una parte della sua mente non era cosi' sicura di quello che stesse succedendo.

Ritorno' al semaforo. Rigiro' l'auto. Rifece la strada che aveva fatto ogni mattina negli ultimi 12 anni (che no, non poteva essere quella che aveva appena fatto, e che lo aveva portato al nulla): svolto' ancora una volta a sinistra. Le sequoie c'erano. Riconobbe anche quella contro cui Elisabeth aveva sbattuto una mattina dopo una gelata. Il segno dell'incidente c'era ancora, anche se sbiadito (troppo sbiadito?)

Segui' la strada che svoltava naturalmente a destra. Rallento' prima della mezza curva a sinistra. Il fossato che correva accanto alla strada, era quello di sempre? Non lo sapeva. Aveva costeggiato mille volte quel cazzo di fossato, ma non ci aveva mai fatto caso (e questo, concluse Jack, era un sintomo di sanita' mentale: la gente che passava la vita a fare caso ai fossati non poteva essere normale...).

Svolto' di nuovo a destra. Il pilone con la centralina della luce c'era ancora. Se lo ricordava bene, perche' una volta, dopo una tempesta di ghiaccio durata una mattinata intera, la luce era andata via dappertutto, e con Lucas, il direttore marketing, Jack era venuto a vedere se fosse saltato qualcosa nella centralina o se invece fosse un problema piu' grave. La centralina era uguale a quella di sempre.

Ed eccolo all'ultima curva a sinistra. Jack sapeva che svoltando, avrebbe visto il netturbino dello spazio, ne era certo. Pero'. Pero' come mai non aveva incrociato nessuno sul vialetto? Alle 7.25 di mattina questo vialetto avrebbe dovuto essere abbastanza trafficato: UPS, colleghi, fornitori per la mensa...avrebbero dovuto superarlo, visto che andava pianissimo.

Magari era una festa comandata, e non se n'era reso conto...

Ripercorrendo nella propria testa tutte le feste comandate del mese di ottobre (allora, c'e' Columbus Day il 12, e poi...e poi), Jack fece l'ultima curva a sinistra. E. Cazzo: il suo ufficio non c'era.

Non c'era il parcheggio, non c'era l'edificio, non c'era il cancello a delimitare il perimetro, non c'era la torretta dalla quale si entrava nei tunnel sotterranei che riparavano dal freddo durante l'inverno.

Non c'era nulla.

Jack sudava. L'indicatore della temperatura esterna lo informava che fuori c'erano 9 gradi centigradi. Dentro, ce n'erano 15, forse. Ma Jack sudava.

In preda al panico

...mi dovranno rinchiudere, Rachel perdera' la pensione, e Catherine sara' presa per il culo a vita dalle sue amiche "Catherine ha il padre pazzo, Cahterine ha il padre pazzo, Catherine ha il padre pazzo..."

Jack apri' lentamente lo sportello. I suoi movimenti come al rallentatore, come se a far entrare l'aria di quel luogo si rischiasse una qualche contaminazione.

L'aria sembra buona. Sono io ad assere pazzo.

Guardando il proprio piede mentre si appoggiava sull'asfalto, Jack si rese conto che la stradina su cui si trovava continuava solo per poco piu' di cento metri, per finire poi in uno sterrato. Si allontano' dalla sua macchina.

In lontananza, attravero l'edificio che non c'era, Jack vedeva alcuni alberi che delimitavano il parcheggio del supermercato Jewel Osco. Lo guardo' per un paio di minuti: non lo aveva mai visto da quest'angolazione. A destra, alcuni aceri salivano sulla collinetta al di la' della quale c'era (avrebbe dovuto esserci?) la sede della Fast Nation.

Jack si mise a correre verso la collina. Le scarpe con la suola di cuoio perdevano aderenza nella brina mattutina, e un paio di volte Jack scivolo', sporcandosi i pantaloni di terra sulle ginocchia. In meno di un minuto Jack fu in cima alla collina, ansimando. Fast Nation era dove doveva essere.

Guardando verso sinistra, Jack vide anche il Jewel Osco: anche quello era dove doveva essere. La nebbiolina del mattino, che nei campi della periferia persisteva piu' a lungo che in citta', gli impediva di vedere se anche la International Shipper fosse dove doveva essere, ma una sagoma in lontananza gli diceva che si', c'era anche quella.

Jack si giro' a guardare la sua auto. Dall'alto, la Ford bordeaux, attorniata dal verde dei prati, non ancora diventato color marrone inverno, era sola. Jack cerco' di concentrarsi

Cerca, cerca, cerca

e si rese condo che non era solo l'edificio a non essere dove avrebbe dovuto essere. Non c'era neanche nessuna traccia di fondamenta: il terreno sul quale il suo edificio era sempre stato (davvero?) era ricoperto di sterpaglia di varia lunghezza.

Per un attimo Jack si chiese se quelle piante fossero tipiche di quella zona. La famosa vegetazione della prateria che in citta' ormai si trovava solo alla Northerly Island. Si riprese, scuotendosi.

E ora che cazzo faccio?

Jack ridiscese la collinetta fino alla macchina. si avvicino' poi al terreno che avrebbe dovuto essere ricoperto di mattoni, plastiche e cemento. Cerco' di sentire se il terreno emanasse un qualche cosa di strano, e mentre formulava questo pensiero si mise a ridere.

Che cazzo sto facendo?

Cammino' fino al centro del campo (si', questo e' un campo). Non senti' nessuna vibrazione strana. Avverti' il freddo del bagnato che passava attraverso le scarpe e i pantaloni umidi di rugiada e fango. Cerco' di trovare con gli occhi la zona del campo nella quale il suo ufficio al piano terra avrebbe dovuto trovarsi. Non riusciva ad orientarsi.

Ritorno' lentamente alla macchina. Risali', chiuse la porta e accese la radio.

...ne pensi della partita di ieri sera, John? Beh, credo che i Cubs abbiano giocato splendidamente, ma non credo che possano ripetersi con i Cal...

Jack spense la radio. Chiuse gli occhi, appoggio' la testa al volante, nella posizione di salvataggio che t'insegnano a prendere sugli aerei in caso d'impatto. Stette immobile cinque minuti. Quando riapri' gli occhi il campo era ancora li'.

2

Nel parcheggio dello Starbucks vicino all'ufficio (il campo) c'erano tre macchine. Jack parcheggio' ed entro'.

La barista - giovane, sui 22 anni, con una coda di cavallo bionda e brufoli in abbondanza - lo saluto' con un sorriso.

"Buongiorno, e benvenuto", gli disse. Jack la guardo' intensamente: no, non l'aveva mai vista. Ma questo non voleva dire niente: veniva a questo Starbucks di rado.

Jack si avvicino' al bancone. "Buongiorno", disse. La voce gli era uscita molto piu' malferma di quanto avesse sperato, ma d'altro canto la sua mente oscillava tra il pensiero che un edificio nel quale era andato ogni giorno negli ultimi 12 anni fosse sparito nel nulla, e il pensiero che l'edificio non fosse neanche mai esistito.

"Ha visto che giornata stupenda?", rispose la barista. "E' perfetta per andare a fare una camminata. Lei e' di queste parti? Perche' qui attorno mi dicono che ci siano delle passeggiate bellissime, soprattutto in questo periodo dell'anno in cui gli insetti sono gia' morti e non fa ancora troppo freddo", aggiunse sorridendo. "Io odio gli insetti, sa?"

"No, non sono di qui. Ma lavoro in un ufficio non troppo distante", rispose Jack.

"Ah si', e dove?"

Jack era venuto per questo: voleva avere conferma di non essere pazzo. "Ecco...infatti, ecco...". Si inumidi' le labbra. La barista lo guardo' un po' straniata. "Io lavoro per la MegaCorporation, a meno di un chilometro da qui. La conosce?" Jack sudava nel suo giubbotto da mezza stagione. Si accorse con un po' di ritardo di aver afferrato il bordo del bar e di avere le nocchie della mani bianche a causa della forza con cui lo stava stringendo. Cerco' di rilassarsi.

"Mmm...Mega Corporation. Certo che la conosco, ma non sapevo avessero un ufficio anche qui..."

Sono pazzo.


"...ma lavoro qui da poco", continuo' "quindi non faccio testo", aggiunse la cameriera sorridendo." Che cosa prende?"

Non sono pazzo.
"Un latte grande, grazie".

"James, ehi". La cameriera si rivolse ad una porta socchiusa dalla quale veniva una luce fioca. Un ragazzo afroamericano con i capelli rasta ne usci' tenendo in mano un barattolo enorme di chicchi di caffe'. Sorrise alla ragazza e a Jack. "James, un latte grande per il signore".

Jack si sposto' verso il punto del bancone dove avrebbe ricevuto il caffe'. Non aveva la forza di parlare: tutta la poca sanita' mentale che pensava di avere ancora era stata usata per cercare conferme dalla ragazza. Non ne aveva avute: ne' conferma della propria sanita' mentale, ne' conferme della propria pazzia. Ma Jack era un uomo dal bicchere mezzo vuoto. L'idea di ripetere lo stesso sforzo col rasta, di porgli le stesse domande, gli pareva una fatica insormontabile. E poi se sono pazzo non lo voglio sapere.

"Ecco a lei, signore, un latte grande", disse il rasta porgendogli la tazza di carta del caffe'. "Lo zucchero e' sul bancone dietro di lei".

Jack si diresse al bancone, prese il barattolo di zucchero, e proprio nel momento in cui aveva deciso di andarsene senza aggiungere altro, il rasta gli rivolse la parola di nuovo. "Deve viaggiare molto, oggi? Ha bisogno d'indicazioni? E' facile perdersi qui intorno, le strade sembrano tutte uguali".

Jack cerco' di capire se il rasta lo stesse prendendo per il culo. Non vide malizia nel suo sguardo. Suo malgrado, decise di cogliere la palla al balzo e di cercare di appurare il proprio grado di pazzia.

"No, veramente sto andando al lavoro", rispose. "Lavoro alla MegaCorporation, proprio qui vicino". Si fermo'. Studio' il volto del rasta con attenzione. Non vide lampadine accendersi. Continuo'. "E' proprio qui dietro l'angolo, meno di un chilometro".

Di' che la conosci, di' che la conosci di' che la conosci.

"E' una delle nuove costruzioni giu' a Delmont?" chiese il rasta. "Credevo non le avessero ancora finite".

Pazzo.

"No", rispose Jack. Una parte di se' voleva andarsene gridando (ululando) a mani alte, come nei film di fantascienza anni '50. E forse guardandosi indietro avrebbe visto il mostro, l'edificio del suo ufficio (il campo?) corrergli dietro. Un'altra parte voleva accasciarsi li', con il barattolo dello zucchero in mano e morire. O almeno svenire. E risvegliarsi e scoprire che era tutto falso. La parte di mezzo intervenne. "No...in realta' e' un'azienda che e' qui dal 1994...". Sudore sulle labbra. "Io ci lavoro dal 97".

"Strano non la conosco", aggiunse il rasta. "ma ci sono cosi' tanti uffici qui attorno che..."

Il rasta si fermo'. "Signore, si sente bene"? Corse verso Jack che nel frattempo cercava di non collassare su un tavolino. Sorretto dal rasta, Jack si sedette su una sedia, ma nel farlo il tavolino si rovescio', e la tazza di caffe' cadde per terra.

"Tutto a posto signore? Vuole che chiami un'ambulanza?".

No.

"Signore? Vuole che chiami un'ambulanza? Ha delle medicine su di lei o in macchina che vuole che vada a prendere?". Il rasta o la ragazza. Non importava.

No.

"Signore?"

Solo allora Jack si rese conto che i suoi no erano rimasti nella sua testa. "No" disse, "grazie. E' solo un mancamento improvviso". Nella sua testa. Solo nella sua testa. Quanti dei 12 anni trascorsi erano trascorsi solo nella sua testa?

"James, ti chiami James, vero?" disse Jack al rasta. Il rasta annui'. "James, fammi un favore. Prendi il mio blackberry e digita il numero sotto "ufficio". Quando ti rispondono chiedi di parlare con Emma. Io non ce la faccio: non riesco a vedere lo schermo". Il telefono!!! Ma come aveva fatto a non pensarci! Il telefono!

"Certo, signore, non c'e' problema, lo faccio subito". James prese il blackberry rosso dalle mani di Jack. La tastiera era sbloccata, e cerco' il nome ufficio. Jack lo guardava come un paziente a cui hanno fatto mille esami guarda le labbra di un medico che arrivi con il responso, vita o morte. Se non avesse trovato il numero, se il numero sul suo telefonino non ci fosse proprio stato, sarebbe stata un'altra tacca nella sua pazzia.

"Eccolo, sto chiamando".

L'ha trovato. Il numero esiste. ALLELUIA. Adesso parlo con Emma e le chiedo di questo cazzo di scherzo da prete che mi hanno fatto, e domani ne rideremo insieme tutti. GRAZIE O SIGNORE GRAZIE.

Il rasta si stacco' il telefonino dall'orecchio. Guardo' lo schermo, senza dire niente, armeggio' un attimo con la tastiera e se lo rimise all'orecchio. Jack non lo vide: aveva gli occhi chiusi in una preghiera di ringraziamento al Signore. Ma lo senti' quando James disse "Ha un altro numero per il suo ufficio? Questo dice che non esiste".

3

Le pratiche al pronto soccorso avevano preso quasi tutta la giornata. Arrivato in stato confusionale, l'odore tipico dell'ospedale ebbe su Jack lo stesso effetto dei sali che si facevano annusare alle signore nei romanzi dell'800: si era ripreso immediatamente, ed aveva concepito un piano semplicissimo per evitare di essere internato: non dire nulla.
Ai dottori aveva semplicemente detto di aver avuto un mancamento, un abbassamento di pressione. No, non prendeva nessuna medicina. No, non dovevano avvertire nessuno. Si', era sposato e aveva una bambina, ma non era il caso di farle preoccupare. Aveva solo tentennato quando gli avevano chiesto se non dovesse per caso avvisare qualcuno in ufficio. No, aveva risposto, semplicemente.
Alle quattro del pomeriggio Jack era in strada. Le analisi non avevano mostrato niente di anomalo. Prese un taxi per recuperare l'automobile lasciata al parcheggio dello Starbucks vicino al lavoro. Non entro' per vedere se il rasta e la cameriera fossero ancora li'. Noto' che ancora una volta non riconosceva nessuna delle macchine parcheggiate. Decise di non tentare di nuovo di trovare il proprio ufficio, monto' in macchina e si diresse verso casa.
I 45 minuti che lo separavano da casa furono impegnati in un immenso sforzo mentale per risolvere il problema in quel momento piu' importante: cosa dire a Rachel, e come dirlo. Questo sforzo era pero' reso complicato dal tentativo di bloccare una voce interna alla sua testa che aveva cominciato ad insinuare un dubbio: Rachel esiste? E Catherine, sua figlia?
Jack cerco' di accantonare i dubbi. Rachel esisteva. E avrebbe avuto una spiegazione razionale. Il problema era che l'unica spiegazione razionale che lui riusciva a concepire era che il suo ufficio non era mai esistito: era sotto psicofarmaci, doveva essere per forza cosi', e l'ultima settimana aveva scordato di prenderli, ed ecco il risultato.
Intravedendo la sua villetta, con il garage per due macchine, il cesto da pallacanestro, e la sua fila di faggi su due dei quattro lati, Jack fu sollevato, e batte' le mani urlando "Eddai!" . Era gia' un primo passo verso la sanita' mentale. O almeno un primo argine verso un abisso di pazzia.
Entrato in garage, riconobbe la macchina di Rachel. Riconobbe gli attrezzi che usava le poche volte che provava a fare qualcosa in casa, e il pallone firmato da Michael Jordan buttato in angolo. Riconobbe la sua vita.
Aveva deciso che la cosa migliore era sedersi con Rachel e dirle tutto, semplicemente. Senza cercare vie di fuga o scorciatoie.
L'odore di zucca (zuppa? pane?) lo accolse non appena apri' la porta di casa. Le grida e i ridolini di Catherine che si sentivano dalla cucina gli fecero capire che stavano facendo i biscotti alla zucca, usando le formine a forma di fantasma, zucca, e pipistrello che aveva comprato tre anni fa, e che venivano rispolverate con l'avvicinarsi di Halloween.
Jack si fermo' sulla porta della cucina, inalando piu' odore e familiarita' possibili. Dovette fare uno sforzo profondo per mantenere il controllo.
L'ultima serata di normalita'?
Entro' in cucina, e Rachel tiro' un urlo. Si era scottata con la pentola a pressione.
"Ciao amore, sei a casa presto", disse, mentre metteva la mano sotto il getto dell'acqua fredda, nervosa. "Papa'!!". Catherine salto' giu' dallo sgabello della cucina tenendo in mano la formina a forma di fantasma, e corse verso Jack, che la prese in collo facendo due giravolte.
Non disse niente. Stringeva Catherine e guardava Rachel. Sua moglie ci mise poco per capire che c'era qualcosa che non andava.
"Dobbiamo parlare, immagino", gli disse con un sorriso preoccupato. Jack annui': una sola parola e le lacrime trattenute per tutta la giornata sarebbero uscite.
"Catherine, sono le cinque, prepara il bagno che tra un po' andiamo a letto", disse Rachel, prendendo la formina a fantasmino e mettendola sul tavolo. Catherine fece poche storie e si diresse allegra verso il bagno.
Quando sua figlia fu uscita dalla cucina, Jack si sedette su uno sgabello. Si appoggio' al bancone sporco di pasta per biscotti e si prese la testa tra le mani. Sua moglie si mise di fronte a lui, con il bancone in mezzo. "Guardami, Jack", disse. "Dimmi che c'e'".
Jack la guardo'. Rachel si rese conto di non aver mai visto suo marito con gli occhi lucidi, e credette di capire.
"Jack, vuoi lasciarci?"
Lo shock fu cosi' forte che Jack, pur avendo sentito, non riusciva a rispondere. "Vuoi lasciare me e Catherine, Jack?" continuo' sua moglie. "Guardami, Jack. Guardami e dimmelo".
Jack si alzo', giro' attorno al bancone si avvicino' a sua moglie e cerco' di abbracciarla. Lei rimase fredda, dura, come il mestolo di legno che aveva ancora in mano. Quando riusci' ad abbracciarla, Rachel comincio' a singhiozzare.
"Mi dispiace Jack, mi dispiace davvero", blaterava tra le lacrime. "So che e' difficile, ma io ti amo. Ti prego proviamoci ancora". Il tremore del corpo rendeva incomprensibili le altre parole. "Ti prego Jack, non lasciarmi ora. Me lo merito, ma non lasciarmi".
Jack non disse niente. Nella pazzia della sua giornata, era riuscito a dimenticare l'immagine di sua moglie che si faceva scopare da dietro, con la gonna alzata e probabilmente le mutande appena spostate, da uno sconosciuto. Era la festa di compleanno della migliore amica di lei, nel dicembre scorso: era andato in bagno al piano di sopra, ed eccoli contro lo stipite di una porta. Si era sempre chiesto se il fatto che potessero essere scoperti l'avesse eccitata di piu'. Se fosse stata un'idea sua o dello sconosciuto. Sconosciuto che per lei sconosciuto non era, ovviamente: un avvocato che se l'era scopata per sei mesi.
Rachel aveva passato mesi a scusarsi, a cercare di spiegare cosa fosse successo. Lacrime, scuse, professioni d'amore. A lui non interessava. L'immagine di sua moglie scopata da uno sconosciuto lo aveva scosso, certo, ma il suo restare con lei era dovuto a pigrizia. A una scelta di non sovvertire l'ordine naturale delle cose, e a non perdere Catherine. Ne erano derivati benefici: Rachel da allora era stata una moglie ideale.
Jack si stacco' da Rachel. "Ehi, non ti preoccupare", le disse asciugandole una lacrima sul viso. "Non e' questo". Non si sentiva in grado di consolarla per diminuire il suo senso di colpa.
"Allora che cos'e' Jack? Dimmi che succede", disse Rachel mentre si soffiava il naso con un fazzoletto che teneva sempre nella manica del maglione.
Chissa' se c'era un fazzoletto nella manica del vestito mentre si faceva scopare da Mr. Avvocato. Scaccio' il pensiero abbassando lo sguardo. "E' il lavoro", disse. E poi d'un fiato: "Stanno riorganizzando la struttura, e forse finiranno per licenziarmi".
La decisione di non dire niente a sua moglie era stata presa a livello insconscio. Non poteva dirle la verita'. L'avrebbe fatto internare? Sarebbe tornata con Mr. Avvocato? Non gli importava. Ma avrebbe perso Catherine.
"E' solo questo, Jack?", chiese Rachel con uno sguardo che assomigliava a quello di un cane bagnato che ti prega di farlo entrare in casa. Gli prese una mano, se l'avvicino' alla bocca. Non un gesto di lussuria, ma di familiarita'. "Solo questo, Rachel", rispose Jack. "Ho solo paura per il mutuo, Catherine e cosa potrebbe capitarci". Tutto qui.
Si abbracciarono. Entrambi duri come mestoli di legno.

L'ultima occasione

Questo racconto l'ho scritto per partecipare al Domino, un gioco letterario organizzato da Laura e Lori, che consisteva nello scrivere un racconto di 5000 battute, partendo dall'ultima frase del racconto che lo precedeva. A me era toccato l'incipit "In fondo era un buon diavolo". Ne ho fatto un racconto con un demonio frustrato dal punto di vista della carriera, al quale capita l'ultima occasione. Il racconto era stato pubblicato originariamente qui, nel blog di storie di Laura e Lori. Fatemi sapere che ne pensate!


L’ultima occasione
 
“In fondo era un buon diavolo”. Maledetto Satana Potente, quanto detestava quando parlavano di lui in questo modo! Vero che era ancora un diavolo di terza classe a 120 anni suonati, ma queste parole lo facevano proprio imbufalire. E non era cosa da diavoli: il male agisce con serenità, gli ripeteva sempre il suo istrutture Asmodai.
 
Però davvero non riusciva a controllarsi ripensando a Baphomet e Samoel che lo prendevano in giro...anzi peggio: che lo trattavano con condiscendenza. Perché poi era facile, pensava Belial, avere atteggiamenti di superiorità quando si era nati 400 anni prima. Anche lui, se solo avesse avuto la fortuna di vivere in un mondo senza diritti umani e senza Convenzioni di Ginevra, a quest’ora sarebbe chissà dove. E invece, povero Belial, era ancora di terza classe.
 
A dire il vero Belial aveva passato la più parte della sua vita a divertirsi, piuttosto che a pensare alla carriera. Però aveva sempre avuto incarichi di secondo, se non di terzo piano. Shaitan non lo aveva mai ritenuto in grado di prendersi cura degli umani davvero promettenti. In Russia, per esempio, il cialtrone Rasputin lo avevano affidato a quell’imbroglione di Samoel, che si era così guadagnato la promozione a diavolo di seconda classe. Belial era stato invece mandato nelle campagne al confine con la Polonia a sobillare incesti. Divertente, però insomma, non si diventa diavoli di seconda classe, e tanto meno di prima, con incarichi così.
 
Ma stavolta era convinto di avere per le mani roba grossa... Se tutto andava come doveva andare, nessuno avrebbe più detto in fondo era un buon diavolo, parlando di lui. Ma doveva stare attento a non ripetere l’errore fatto negli anni ’40 del secolo scorso...
 
Quando Belial pensava al suo periodo durante il nazismo, non poteva trattenere le lacrime dalla nostalgia. Oh, che bei momenti! Se lo ricordava ancora quando Shaitan in persona permeava quasi tutta l’Europa e l’Asia e la Russia, senza bisogno di nascondersi...Si ricordava delle notti passate con Lilith a trasmigrare nei corpi di padri e figlie, fratelli e sorelle...che tempi! Che notti! CHE NOTTI!
 
Belial non poteva credere di essere stato così stupido. Ma neanche l’anima di un colonnello nazista – NAZISTA, per Shaitan! – sai portare?, si ripeteva. A dire il vero, era stato molto sfortunato: tra tutti i nazisti invasati, proprio il colonnello Claus von Stauffemberg gli era capitato!
                                         
A quell’epoca, tutti i diavoli suoi compagni di corso se la spassavano, tanto era forte il Maligno nel sangue dei tedeschi. Passavano il tempo a fornicare nei corpi umani e a uccidere bambini nei campi di lavoro, e a bruciarne i corpi per assaporarne l’odore (oh...il profumo...). A lui invece avevano assegnato l’unico nazista con i rimorsi, quello dell’operazione Valchiria e del fallito attentato a Hitler del 1944.
 
Vero, Belial aveva comunque saputo evitare il peggio, facendo fallire il colpo di stato all’ultimo momento. Ma l’anima di von Stauffemberg era andata al Nemico. E da allora Belial aveva avuto solo incarichi pessimi, con del materiale umano davvero scadente. Gli avevano assegnato persone stupide, e si sa che la stupidità è nemica del Male.
 
Lo avevano mandato in Italia, nel dopoguerra, e gli era sembrato un posto promettente...ma Belial aveva compreso ben presto che non si poteva avanzare di carriera passando la giornata a convincere mariti a tradire le proprie mogli, o negozi di alimentari a ingannare i propri clienti, o baristi a vendere bibite annacquate. Perché queste non erano cattiverie, ma aspetti insiti nell’animo dell’italiano medio! 
 
Aveva aspettato la chiamata per i Balcani, ma Shaitan non aveva sentito ragioni: se ne sarebbe occupato lui di persona. Diceva che si sarebbe dapprima impadronito dello spirito dei Serbi...avrebbe causato la reazione dell’Occidente di fronte all’indifesa vittima Bosniaca, e poi avrebbe fatto dei bosniaci la testa di ponte per l’invasione musulmana in Europa. O che tempi si prepavano, gli diceva Shaitan. Che tempi!
 
Lui invece lo avevano mandato in America. In quella God’s Country nella quale lo spirito del Nemico, quel Dio che gli uomini credono onnipotente, è ancora inspiegabilmente vivo. Belial non era molto eccitato all’idea. Ma Shaitan era stato irremovibile. “C’è questo Rahm Emanuel, a Chicago, che tra una quindicina d’anni avrà un ruolo cruciale nei miei piani. Voglio che te ne occupi tu. Sappi che ti ci mando solo perché i nostri migliori sono occupati in Medio Oriente”, aveva aggiunto il Maestro. “Ma questa è la tua ultima occasione, Belial. Fallisci e ti annienterò”.
 
Belial si era dedicato alla missione con entusisasmo. Questo Emanuel però era davvero un uomo per bene, e penetrarlo era stato una delle cose più difficili che Belial avesse mai dovuto fare in vita sua. Ma ne era valsa la pena. Oh, se ne era valsa la pena. Ora che Rahm Emanuel era diventato capo di gabinetto del nuovo Presidente Obama, nessuno avrebbe più detto che in fondo Belial era solo un buon diavolo.Si sarebbero dovuti ricredere tutti. 

Il primo viaggio

Breve raconto dallo "sguardo obliquo".

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Il primo viaggio

Questo buio mi sta facendo impazzire. Se solo riuscissi a capire dove mi trovo. Non riesco a distinguere nessun contorno, non riesco a carpire nessun colore. Gli odori, però, o mio Dio, gli odori sono nauseabondi. E mi circondano. Sono tutto intorno a me. Odori rancidi, di sudore, d’indumenti sporchi, di profumi mischiati l’uno con l’altro, di scarpe, gli odori di dieci, cento, mille barboni. E questo peso opprimente che mi spinge verso il basso, come una pietra puzzolente, sulla mia schiena.

Non sono sola, questo è chiaro. Sento la presenza di miei simili qui attorno. Sento la paura di alcuni di loro, e la strafottenza arrogante di altri. Se solo qualcuno mi aiutasse a capire...

Il rumore mi sta facendo impazzire. Questo rumore sordo, ostinato, che soffoca tutto come una coltre di nebbia, azzerando ogni differenza. Se solo potessi diventare insensibile... chiudere fuori ogni sensazione.

E quei cani, Dio mio, quei cani, che abbaiano e abbaiano e abbaiano da ore, ormai. Sento il loro fetore, la loro urina mista a paura. Li odio con tutta me stessa.

Comincio anche ad avere freddo. Quest’umido sta lentamente entrando dentro di me.

Ho paura.

***

AHHH!

Qualcosa è caduto sopra di me! E’ su di me adesso, mi sta sgraffiando, mi sta scivolando addosso...Dio mio ma che sta facendo! Del liquido freddo, oleoso, sta entrando dentro di me. Che cos’è? Che cosa mi sta succedendo???

Perché lui ha lasciato che mi prendessero, che mi gettassero qui dentro, che mi sbavassero addosso, che mi picchiassero?! Bastardo!

Dev’essere stata lei a spingerlo a farlo...quell’arpia. E’ stata gelosa di me dal primo momento che lui mi ha guardata. Cos’è che gli aveva detto? “E’ da tanto che non guardi me come stai guardando quella roba li'”. Quella roba li'.

Lurida puttana.

***

Uno scossone. Sta sucedendo qualcosa. Un altro. Uno scatto, come di un grosso interruttore...un rumore metallico più forte del rumore di fondo che mi sta facendo diventare sorda.

Sento eccitazione tra i miei simili. Dove ci stanno portando. Cosa ci faranno? Avrei dovuto prestare più attenzione alle storie che sentivamo in fabbrica, prima che ci facessero uscire...di che parlavano? Non riesco a ricordare...Del “primo viaggio”. Sì, sì, del primo viaggio...Che cosa dicevano?

Che qualcuno mi aiuti! Te lo prometto, o Dio, aiutami ad ucire viva di qui, aiutami a superare questa prova e mi dedicherò al mio padrone per sempre. Ti prego!

***

Le vibrazioni si fanno più forti. Sta per succedere qualcosa. Lo sento. Avverto il cambiamento tra i miei simili, che si preparano, e quei maledetti cani hanno cominciato a guaire di nuovo.

Ecco, un altro scossone forte...è successo qualcosa. C’è un rumore più stridente. Ci stiamo fermando. Il peso sulla mia schiena si sta facendo insopportabile...mi sento sporca, SONO sporca, di me e degli umori viscidi che gli altri qui dentro mi hanno sbavato addosso.

Cosa penserà di me, quando mi vedrà?

Ma ecco la luce! LA LUCE!!! Signore, ti ringrazio, che hai asoltato le mie preghiere.

Ecco, li vedo: due umani! Ci stanno aiutando, ci stanno facendo uscire. Saremo liberi, e rivedrò lui, e lo pregherò di non lasciarmi mai più, gli chiederò perdono se ho sbagliato qualcosa, farò tutto quello che vuole.

No, TI PREGO, NO!!! BASTARDO!! Sento le sue mani dentro di me. Il bastardo ha infilato le sue dita schifose dentro di me, mi sta toccando, no, mio Dio, perché lasci che questo mi accada!!! Non ho la forza di oppormi. Vorrei saper piangere...

Mi vorrà ancora lui, dopo che questo essere immondo mi avrà lordata con le sue dita? Mi accuserà, pensando che sia colpa mia?

Li sento ridere. “Questa è proprio una bella grossa...E anche bella cara. Varrà metà del mio stipendio”, sta dicendo il violentatore mentre le sue dita sono dentro di me. Sta cercando qualcosa...se solo potessi fargli male!

***

Ecco, sono fuori. Mi hanno buttato su qualcosa di metallo...adesso riesco a vedere bene, siamo almeno un centinaio, ammassate l’una sull’altra. Il bastardo stupratore mi ha lasciata aperta. Sento l’acqua dal cielo che entra dentro di me, e si mischia ai liquidi immondi che già mi avevano penetrata.

Puzzo. Io. Puzzo. Io: così nuova, così bella, e puzzo come una capra.

Ecco, adesso ricordo di cosa parlavano le leggende: del primo viaggio. Del rito del primo viaggio. Ora ricordo. E di come la furia dei demoni del viaggio si scatenasse proprio contro di noi, perché eravamo le più belle, e quindi le più esposte.

Se solo lui mi avesse protetta meglio. Se solo avesse utilizzato un lucchetto, invece di lasciarmi andare così, come se fossi un niente, un vuoto a perdere.

Ma ecco ci siamo, sono su un nastro. E lo vedo! LO VEDO!!! E anche lui adesso mi vedrà, mi prenderà, mi carezzerà, mi chiederà scusa...

Eccolo, Dio, quanto è bello. Voglio sentire le sue mani su di me, anche se sono sporca...voglio fargli capire che ho cercato di proteggere tutto quello che mi aveva affidato, e che ho resistito...non potrà odiarmi...non potrà non capire.

***

- Porca puttana, ma quella è la mia valigia?

- Mmm, pare di sì.

- Ma cazzo, è sfatta. Ora mi sentono alla compagnia di viaggio.

Giulio prende la sua Luois Vuitton, più cara di una rata del mutuo, la raccoglie arrabbiato dal nastro trasportatore. Come spesso succede quando qualcosa di bello, di nuovo, ci viene profanato e anche noi allora, per la stizza, invece di accarezzarlo e amarlo, lo profaniamo a nostra volta, Giulio prende la valigia, la sbatacchia per terra, la lancia su un tavolaccio lì vicino.

- No, cazzo, ma me l’hanno anche aperta sti figli di puttana!

- Ti hanno rubato qualcosa?

- No, no...c’è il biglietto. Sono quei cazzoni della sicurezza. Chissà che cercavano. Meno male non ho messo il lucchetto...altrimenti avrebbero rotto anche quello.

- Certo, che te l’hanno proprio rovinata: guarda qua: cos’è questo? Una macchia d’olio? E’ tutta sgraffiata...Te l’avevo detto che avresti dovuto comprare una Samsonite come tutti...queste sono belle ma delicate.

Giulio chiude la valigia indispettito. La rimette sulle ruote, vorrebbe prenderla a calci. Sta per farlo, ma qualcosa lo blocca. S’inginocchia, tira fuori un fazzoletto dalla tasca, e comincia a pulirla, accarezzandola.

“Dai, poraccia”, dice alla moglie che lo guarda indispettita, “ne ha già passate tante oggi...era il suo primo viaggio!”

Cena di Natale - Racconto (e primo capitolo)

E' da un po' di tempo che sto scrivendo una roba più lunga del normale. Chiamiamolo un racconto lungo, va', con vari capitoli (titolo provvisorio "Caduta Libera"). Non so se lo finirò, e che ci farò se e quando lo finirò. Ma siccome il primo capitolo si chiama "Cena di Natale", ed è finito da un po', e siccome può essere letto come un racconto a sé stante, ve lo posto. Che ne pensate?



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Caduta Libera
di Demonio Pellegrino


Capitolo 1 - Cena di natale

Festa di Natale, casa di Luca. Ho un bicchiere di champagne in una mano, una tartina al salmone nell’altra, e i miei occhi sul culo della donna del padrone di casa.

Sono bellissimo. Indosso un paio di jeans G-star, una maglia nera a pelle, un maglione Superdry verde con cappuccio, scarpe Prada.

Siamo in 20, in perfetta parità uomo donna, come da legislazione sulle quote rosa. Gli uomini presenti si dividono in tre grandi gruppi: Luca e Vittorio fanno parte della categoria dei trentenni che approfittano del loro essere trentenni per trombare venticinquenni; Paolo, Umberto e Igor fanno parte della categoria di trentenni che approfittano del loro essere trentenni per trombare tutto il trombabile; Giulio, Valerio, Marco e Giovanni fanno parte del gruppo di trentenni sposati, fidanzati o quant'altro che vorrebbero trombare venticinquenni o tutto il trombabile, ma non lo fanno.

Io sono in bilico tra le prime due categorie.

Le donne sono tutte in una sola categoria: troie. Ma ci sono tre sottocategorie: mettibili, trombabili e ingiovibili.

Mi guardo intorno. Sono seduto tra donne disperate per un figlio, donne disperate per un cazzo (letteralmente), donne inconsapevoli dell'animale che si ritrovano per marito o compagno. Nessuna ingiovibile, per fortuna, molte trombabili, pochissime mettibili.

Igor, di fronte a me, grugnisce nella sua lingua del cazzo. Giusy sostiene che il suo accento è molto sexy. Mi domando se la Mercedes classe E che ha parcheggiato di fronte a casa di Luca influisca sulla sensualità del suo accento. E se sì, in che misura.

Continuo a guardarmi attorno, e mi chiedo dove siano finite le corpiduri delle mie compagne di università: guardo Laura, a capotavola. Le sorrido, e penso a quando scopammo a casa sua, con sua sorella in salotto, e la camera da letto con la porta aperta. Sta servendo una zuppa grigia, di non so che cosa, impedita dal suo maglione extralarge. Immagino l'abbia comprato per coprire lo sboddamento del suo corpo. Dovrebbe richiedere indietro i soldi: ovviamente l'indumento in questione non svolge bene il proprio compito.

Cristina sta parlando con Vittorio, si vede che è annoiata. Si vede che non ascolta. Mi tolgo il mocassino Prada pagato col sangue, e comincio a farle piedino sotto il tavolo, solo per non impazzire e avere qualcosa da fare, mentre Giulio, il suo convivente, mi sfonda le meningi con programmi d'investimento che secondo lui possono aiutarmi a superare la crisi economica.

"Dovresti investire nel vino, Matteo, comprarti una bella cassa di Chateux Gran Cul, lasciarla li' vent'anni, e poi rivenderla. Ci faresti un sacco di soldi, è una polizza per la vita", continua a parlare sbavando. E' l'unico ad indossare una cravatta del cazzo. Cristina, che non si è mossa se non per aprire un po' le gambe e permettere al mio piede di montare verso le sue cosce, lo guarda con disprezzo.

"Giulio, perché devi rompere le scatole a tutti con queste menate d'investimento?"

"Lascia stare Cristina, che se avessimo investito in vino come avevo detto io, a quest'ora saremmo ricchissimi"

"Beh, ma non lo siamo, Giulio. E credo che questo ti squalifichi abbastanza come possibile consulente finanziario, non credi?".

Nel dire queste cose Cristina infila la mano sotto la tavola, prende il mio piede e se lo mette con forza in mezzo alle gambe. Mi domando che biancheria abbia, mentre il mio piede senza scarpa assorbe il calore della sua figa. Mi domando dove potrei scoparmela in casa di Luca, senza che nessuno se ne accorga. Mi domando per quale motivo m'interessi che nessuno se ne accorga.

Giulio continua a parlarmi di fondi d'investimento e di un suo amico che una volta a Singapore ha comprato un mobile antico e ha scoperto che...Mi alzo all'improvviso per non sclerare e prenderlo a sberle. Cristina sobbalza. M'infilo la scarpa, mentre Giulio mi guarda, vede che mi sto mettendo la scarpa, e poi alza gli occhi verso Cristina, che lo guarda basita. Non dico niente, e faccio come se fosse perfettamente normale togliersi il mocassino destro durante una cena.

Tutti hanno capito benissimo che fino a un secondo prima il mio piede era tra le gambe di Cristina. Tutti tranne Giulio. Che si alza con me e continua a parlarmi di fondi d'investimento.

"Giulio, devo andare al cesso", gli dico, "vuoi accompagnarmi anche li'"?

Mi allontano, e mi avvicino per principio al corpo sformato di Laura, faccio in modo di toccarlo passando per aprire il cesso, e sento il mio gomito affondare in un mare di carne.

Stranamente non mi schifa, provocando una semi erezione.

Vado in bagno, provo a farmi una sega pensando a Cristina, ma non ci riesco. Mi rassetto, esco dal bagno e torno in sala da pranzo.

Il gruppo si è spostato verso il tavolo del dolce. Pandori, panettoni, tiramisù, creme-caramel e ogni altra bomba calorica sono offerti come su un altare sacrificale.

Elena mi si avvicina. Trombabile, sicuramente. Forse mettibile. E' l'unica che ancora si prenda la pena di parlarmi come se potessi davvero risponderle.

"Matteo, che cazzo stai facendo con Cristina? Tra un po' il tuo piede le sbucava dalla bocca..."

"Sei gelosa?"

"No, ma non credo tu ti faccia del bene a fare quello che fai. Giulio è un tuo amico!"

"Giulio è uno a cui ho venduto la raccolta di Martin Mystère nel 1994, Elena, e a prezzo maggiorato. Non un amico. Sii precisa nell’utilizzo dei vocabili, per favore, ti sei pure laureata in lettere."

"Sei davvero uno stronzo".

"Per servirla, signora".

Elena si allontana e torna da Vittorio. Igor si avvicina.

"whsqdjheshsj tiramisù?"

"Eh?"

"qsqkhdkqsdh tiramisù"?

"Ma come cazzo parli, Igor? Non ti capisco"

Igor si offende, sta per dirmi qualcosa. Cristina mi prende per un braccio e mi porta in cucina.

"Ti vuoi fare ammazzare stasera?"

"Avrei altre priorità...", le rispondo, mentre le guardo deliberatamente la scollatura abbondante, che lascia intravedere due tette durissime.

"Ah sì, e quali sarebbero?"

Non alzo lo sguardo dalle sue tette. Sto parlando con loro: "Non ho programmi. Vado dove mi porta il cuore".

"Matteo, tu un cuore non ce l'hai. O se ce l'hai è sulla punta del tuo uccello".

"E' un problema?", le chiedo sfoderando il mio sorriso migliore.

"Non necessariamente..."

Mi avvicino, e senza guardarla negli occhi le metto una mano sulla tetta destra, e una mano sul fianco sinistro. L'attiro verso di me. Le bacio il collo. Sento il suo respiro aumentare.

"Certo che voi donne siete veramente tutte troie", sussurro, ancora con la mano sulla tetta, ancora senza guardarla in faccia.

Sento il rumore dello schiaffo prima ancora del dolore sulla gota. Mentre Cristina se ne va in bagno, con le lacrime agli occhi, le urlo "che cliché del cazzo, che sei". Non credo che mi abbia sentito. Faccio per urlare più forte, ma mi dico che non è una buona idea.

Torno in salotto. E' il momento della consegna dei regali. Umberto, come ogni anno, sta cercando di trovare una nuova procedura per la consegna di questi cazzo di regali a sorpresa. Evidentemente non è soddisfatto della procedura reinventata ogni anno negli ultimi 15 anni.

M'innervosisco, e per dispetto comincio a spezzettare le foglie di una pianta costosa che Maria ha portato di regalo a Luca stasera. Non so che pianta sia, ma è verde.

Luca mi vede, e si avvicina. Mi sorride e versa il suo spumante nel vaso della pianta, sorridendo. "Mi faceva comunque schifo", mi dice.

Lo abbraccerei se non fossi uno stronzo.

Umberto sta ancora cercando di spiegare come avverà la cernita dei regali. Io mi piazzo dietro al divano, guardando i culi delle donne, per vedere se qualcuna non lasci il tanga in bell'evidenza. Scommetto con me stesso che ce ne sono almeno cinque. BINGO! Ne conto 6. Di queste sei, tre me le sono scopate, una mi ha fatto un pompino. Due mi mancano.

Decido che devo rimediare.

Mentre fantastico di un'orgia con due gemelle viste su una rivista dal dentista quel pomeriggio, arriva il momento dei regali. Ho il regalo numero 6. Lo apro. E' un cuscino per appoggiare la testa nella vasca da bagno. Comincio a urlare come un pazzo, saltando, gridando che è bellissimo, e che Dio solo sa quanto lo volessi. Corro intorno agli altri. Inciampo in una lampada che cade per terra e si rompe.

Gli altri mi guardano in silenzio, imbarazzati. Io continuo ad urlare. Taccio all'improvviso.

"Cazzo, ho solo la doccia a casa", dico. E comincio a fingere di piangere.

Giulio scuote la testa in un angolo, guardandomi. Cristina mi guarda. Non capisco se è amore, disprezzo o pena quello che vedo nei suoi occhi. Luca ride.

Capisco che è il momento di sloggiare. Saluto e me ne vado. Prima di uscire frugo nei cappotti appesi all'ingresso, prendo un paio di mazzi di chiavi che non so a chi appartengano. Uscito in strada, le butto nel pozzetto della fogna.

In strada, cerco poi la Mercedes Classe E di Igor, la rigo con una chiave, e ci scrivo UNGHERIA MERDA.

Salgo su un taxi, e vado a casa.

Tornare bambina

Esercizio: scrivi un racconto in un genere che pensi non ti sia congeniale. (Ho scelto un racconto d'amore).

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Tornare bambina

"Se avessi saputo che sarei stato prigioniero per 15 anni, se me lo avessero detto,
la cosa mi avrebbe aiutato? O mi avrebbe ucciso?"

Oh Dae Sun, Old Boy


Camilla spense il neon della cucina, e andò verso la camera da letto. I piatti erano ancora sul tavolo, sporchi, ma per stasera non importava. Li avrebbe lavati l'indomani. Suo marito Luca era in viaggio di lavoro, e Elisa avrebbe dormito da un'amica. Stasera era libera.

Passando in corridoio, sfiorò i libri sugli scaffali, come faceva da ragazzina. Quando si piazzava ore di fronte alla libreria, senza saper scegliere...tanti mondi da esplorare in ogni libro, tante vite da rivivere...allora le sembrava che sceglierne uno volese dire condannare all'oblio gli altri, far loro un torto.

Sorrise. A cinquant'anni la paura di scegliere non l'aveva più...era subentrata quella di non poterlo più fare.

Andò verso il comò, ne aprì l'ultimo cassetto, quello dove nei film i ladri trovano sempre quello che cercano, nascosto sotto qualche capo di biancheria. Nel caso di Camilla, però, avrebbero trovato solo una lettera. Una lettera di molti anni fa, con la carta ingiallita, e l'inchiostro macchiato in alcuni punti. Le macchie c'erano già quando la lettera le era stata recapitata, una ventina di anni prima.

L'aprì con cura. E come sempre, fu assalita da un sentimento ambiguo, di odio, rabbia, amore, desiderio. Marco era morto, lo sapeva, l'aveva letto sui giornali. Ma le sue parole, le ultime che le aveva rivolto prima ancora di diventare il Marco di dominio pubblico, erano ancora con lei.


Parigi, 8 luglio 2009

Camilla,

La tua voce quando ti ho detto che non sarei venuto. Mi perseguita, mi scava nello stomaco e uccide ogni mio sforzo. Una parola ti è bastata, ancora una volta, per farmi capire il mio errore. Di nuovo.

"Perché".

Una parola. E il tuo tono che era il tono di tutto il mio spirito. Sorpresa, stupore, disperazione, una slavina. Così mi sentivo. Così ti sei sentita. E averla generata la slavina non ti mette al riparo.

Tu mi chiedi la lettera. Eccola. Quando leggerai, se leggerai, forse capirai. Forse no. Come hai detto tu, ho solo questo da offrire, parole.

Era una sera di aprile. Lungo strade mai percorse, eccitato, impaurito, venivo ad incontrarti. Solo qualche foto e molte parole scambiate potevano aiutarmi a cercare di capire che cosa sarebbe successo. Non l'hanno fatto.

"Se avessi saputo che sarei stato prigioniero per 15 anni, se me lo avessero detto, mi avrebbe aiutato? O mi avrebbe ucciso?". La stessa domanda di Oh Dae Sun mi circola ormai da mesi nella testa. Non sono passati quindici anni. Sono passati solo pochi mesi. Ma la sensazione di cambiamento profondo, è stata immediata, improvvisa, travolgente. Come un apprendista stregone qualsiasi ho sollevato forze che non ho saputo controllare, che solo ora riesco a fingere d'ignorare.

Arrivare, parcheggiare. Cercare il tuo nome tra i campanelli. Titubare, guardando i vicini che entrano attraverso lo stesso cancello, e mi guardano inquieti. Segno dei tempi. Ma non sono uno straniero, i miei vestiti sono puliti, i miei tratti sono nordici, più a nord della Lega, e il mio sorriso non è clandestino. Desto diffidenza, ma garbata. Non paura.

Indugiare ancora, con un cane che abbaia da qualche parte vicino. Guardare le case. Ricordi di scuola, quando la maestra ci spiegava le costruzioni delle diverse tipologie di case romane. Non sembra una casa romana, la tua, non lo è, ma i ricordi immediati sono quelli. La mente ha i suoi percorsi. Mi chiedo se potrebbe mai diventare la mia casa. Non mi rispondo, mi dico che è un falso problema. Sapevo già tutto? O era solo un pensiero sciocco, inconsapevole del vaso di Pandora che stava per scoperchiarsi?

Suonare. Trovarti al portone. Risa d'imbarazzo. Lo sconosciuto a casa della sconosciuta. Una doccia, chiacchiere, una familiarità dapprima percepita come finta, poi capita come vera.

Un bacio. Sentire il volo dentro. Capire l'errore, capire che non lo controllo, parole che salgono subito alla gola, come una fonte che abbia trovato una via di sbocco dopo anni. Con uno sforzo, riuscire a rimandarle giu'.

Sesso. Molto. La sensazione, il bisogno di abbandonare i preliminari ed essere solo dentro di te. Anche se immobile. Anche senza muovermi. Ma immobili non siamo. Sesso come sublimazione di altro. Sesso come penetrazione dell'anima. Ma non la tua, la mia. Avvertire che sei tu che possiedi la mia mente come io sto possedendo il tuo corpo. E' bastato un attimo. Ma è ancora troppo presto per capirlo, e troppo tardi per fermarlo.

Era una sera d'aprile. Una sera in cui la mia anima divenne consapevole che lo sbocco esisteva. Senza sapere che di lì a poco si sarebbe mostrata troppo pavida, forse, per perseguirlo.

E leggere Catullo in latino, su un letto sfatto dagli odori e dai sapori di tutto quello di cui Catullo parla. Ascoltare la tua voce, mentre i rumori estivi penetrano nell'appartamento. Falsamente estivi, e dunque anch'essi almeno in parte responsaibili della perfetta illusione.

Baciarti ancora, fare di nuovo l'amore.

Parlare in macchina, con la tua voce che è come un balsamo.

Sognare di fare l'amore con te, anche mentre facciamo l'amore. Come se la perfezione presente non bastasse, come se volessi fare scorta di futuro.

Non eri nata neanche come un gioco. Non eri la prescelta con la quale divertirsi un po' per poi abbandonarla. C'erano altre, per questo. Eri la prova finale prima del grande salto. Eri quella che doveva confermarmi che non potevo stare meglio di come stessi. Eri quella che avrebbe ancora una volta dovuto confermare che non è una questione di chimica, che tutto era ormai come nel migliore dei mondi possibili.

Era questo il ruolo che avevo scelto per te. E per questo ti ho mentito. Non ti ho detto di lei. Non ti ho detto dei nostri piani, del nostro presente e del nostro futuro. Dovevi essere uno strumento, dovevi sparire dai miei pensieri, dalla mia vita. Dimenticata il giorno stesso in cui fossi uscito dalla tua porta.

Non cerco comprensione. Un motivo vero, non c'è.

Sto mentendo, c'è. E' la voce. La voce che mi ha convinto che in realtà l'elevazione di spirito fosse temporanea. Che mi avresti lasciato, tra due, tre anni, per un velista, un pittore, un contabile, un bancario. E che io non l'avrei sopportato.

Chiamami essere triste. Lo sono. Un uomo che ha paura di vivere pienamente l'amore oggi per paura di sprofondare domani. Un uomo che ha scelto l'atarassia dei sentimenti alla tempesta che tu rappresentavi.

Odiami. Disprezzami perché questo merito.

Avrei potuto mentirti. Continuare a vederti ancora, almeno un'altra volta. Senza che tu sapessi niente. La sua distanza, la nostra distanza me lo permetteva. Almeno per un po'. Sarei potuto venire quel fine settimana. Stare con te. Non ho voluto. E ho scelto di finire prima ancora che tu me lo chiedessi. Prim'ancora che tu mi mettessi di fronte all'obbligo di una scelta.

Non mi pento della scelta di quel giorno. Perché ti amo. E perché sono un vigliacco. La prima non posso spiegartela. La seconda forse si'.

Ho optato per la certezza di un'infelicità che speravo di saper gestire, figlia della mia decisione di non vederti. L'ho preferita alla possibile infelicità di un futuro in cui tu mi avresti lasciato. Non avrei sopportato di vivere una sensazione così e poi vederla sparire. Ed ho scelto di non viverla.

Ma l'annichilimento che provo mi fa capire che forse ho commesso un errore. Il baratto dei sentimenti non mi è stato vantaggioso, e sto forse pagando più di quanto avrei mai pensato di dover pagare.

Mi dimenticherai? Mi ricorderai con disprezzo? Tu che con una parola hai saputo capirmi e possedermi?

Con altre donne questo dubbio non mi avrebbe minimamente turbato. Con te mi tormenta. Non è il tuo giudizio che mi preoccupa. E' l'idea di averti persa. Aver perso non solo te, ma anche una parte di me.

Un bivio, che io non ho imboccato. Nonostante la strada sulla quale sono rimasto fosse stata chiusa da tempo, e io lo sapessi.

Baciami, stringimi, fammi sentire il tuo sapore. Scrivere queste parole mi provoca un desiderio incontrollabile. Ora capisco, finalmente, cosa vuol dire bruciare d'amore.

A una riunione oggi per la prima volta ho balbettato. Ti pensavo, ed è venuto il mio turno di dire qualcosa e non ci sono riuscito. Sei rimasta nella mia testa, senza andartene. E le parole non mi sono uscite. Solo suoni gutturali.

C'era un politico accanto a me. Era l'ospite d'onore. Avrei dovuto presentarlo, fare conversazione prima e dopo. Mi pareva un tipo in gamba. Sorridente, gentile, affabile. Sui 55 anni, più o meno. Senz'anello al dito. E mi sono chiesto se anche lui avesse bruciato tutto per una storia non vissuta. O se magari avesse bruciato tutto per averla vissuta, la storia. Ti ricordi quando in riva al lago parlavamo del dubbio della Falena?

Mi chiedevo se diventerò anch'io così. Mi chiedevo se come lui tornero' a casa dai miei viaggi di lavoro e guardero' la televisione da solo, forse chiamando una puttana ogni tanto per soddisfare i miei bisogni. Forse neanche quello.

Mi chiedevo fino a che punto una scelta, una scelta sola, possa condizionare una vita. E mi rispondevo "molto". Ma dipende dalla scelta. Mi chiedevo se anche lui serbava nel cuore il ricordo di un volto, di un momento, che non riusciva a passare.

E' venuto il mio turno, e ho balbettato. E me sono andato.

Come hai detto tu, ho solo questo da offrire, parole.

Tuo (da sempre, e per sempre)

Marco


Richiuse la lettera dolcemente, cercando di minimizzare i danni alla carta. Pensò a sua figlia Elisa, che con i suoi vent'anni viveva in un mondo dove ormai le parole esistevano solo attraverso lo schermo di un computer. Pianse per lei. Perché non avrebbe forse mai potuto capire cosa volesse dire rileggere parole d'amore scritte vent'anni prima, con i fogli macchiati dalle lacrime dell'uomo che le aveva scritte per te, e capaci ancor oggi di farti sentire leggera e pesante come allora.

Si alzò dalla scrivania, andò di nuovo in corridoio, di fronte alla libreria. Si sedette per terra, proprio come quando era bambina. Incrociando le gambe, poggiando i gomiti sulle ginocchia, e il mento sui palmi delle mani. Guardandola, non fosse stato per i molti capelli bianchi, la si sarebbe presa ancora per quella bambina di tanti anni fa.

Il rumore del traffico arrivava smorzato attraverso le finestre. Lo scaldabagno ticchettava, come una macchinetta da caffé. Mentre Camilla si trovò di fronte a mille mondi, e ricomincò a dubitare ancora una volta su quale scegliere, quale far rivivere. Sorrise. E ringraziò Marco per l'unico vero gesto d'amore che avesse fatto per lei. Scriverle quella lettera.