Frutto esplosivo
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Frutto esplosivo
di Demonio Pellegrino
Degli altri quattro sensi non c'era traccia. Tutto ciò che riuscivo a sentire era uno stucchevole sapore di glassa alla fragola. Brutto segno: voleva dire che non ero riuscito a disattivare il frutto prima della scossa elettrica.
“Lo capisci che cazzo significa questo, Valerio?”, mi sbraitava in faccia il luogetenente Loris Fardo. Piccoli spruzzi della sua saliva toccavano il mio viso che cominciava a riacquistare sensibilità. Le parole arrivavano come un suono lontano, stavo lentamente recuperando. Ma se questa non fosse stata un’esercitazione ci sarebbe stato ben poco da recuperare: al posto della scossa ci sarebbe stata un’esplosione.
“Lo capisci o no, che cazzo vuol dire?”, insisteva Fardo. “Vuol dire prima di tutto che sei uno stronzo sbruffone, che non l’hai disattivata prima dell’esplosione, e che non sei assolutamente in grado di tornare a lavorare. Per cui levati dalle palle”.
Le parole erano dure, in contrasto con il tono quasi amichevole. Fardo era preoccupato per me, ma soprattutto per il fatto che non fossi ancora in grado di tornare al lavoro. Avevo fallito entrambi i test, c’era poco da fare.
“Vai a casa Valerio. Riposati. Riproviamo tra una settimana. Quando torni ti daremo un nuovo partner: Luisella.”
Luisella? Una cacciatrice donna? Questa era una novita’. Fardo ci credeva davvero, allora, alla storia che i frutti potessero anche essere uomini...Perché no? Se c’erano molti uomini disposti a rischiare di saltare per aria provocando una strage pur di farsi una bella scopata, era possibile, anzi, probabile che ci fossero anche molte donne disposte a fare lo stesso. I bar per donne single in carriera, in cerca di avventure, erano sempre pieni. Un frutto maschio aveva senso. E anche una cacciatrice donna ne aveva.
“Fardo, ascolta” – la mia voce impastata, mentre recuperavo tutti i miei sensi. “Sai benissimo che senza di me siete nella merda. Negli ultimi due mesi ci sono già stati quattro attentati. E siete in otto per un’intera città. Vi servo”.
I frutti avevano cominciato a farsi scoppiare solo da un paio d’anni. All’inizio era stato difficile anche solo capire cosa stesse succedendo. Esplodevano bar, ristoranti, discoteche a New York, Londra, Mumbai, Mosca, Milano, Barcellona. Non si trovava l’esplosivo pero’.
I messaggi invasati di rivendicazione, fatti vedere in mondovisione, erano sempre gli stessi: eravamo una civilta’ senza piu’ valori, e il vero Dio, e il ritorno della moralita’, tutte cose già sentite. Dovevamo pagare, morire tutti, e cazzate andando. Tutto uguale. Tranne la modalita’ degli attentati. I frutti.
I frutti erano la versione più aggiornata del concetto di kamikaze. Solo che invece di farsi saltare in aria portandosi addosso dieci kili di esplosivo, ingoiavano lo sciroppo. Esplosivo liquido. Inventato dalla Bayer per usi edili. Mettevi il liquido, che s’infiltrava nelle fondamenta dell’edificio che dovevi far saltare, avvicinavi una fonte di calore, e BUM. Economico, veloce e sicuro. E aveva un buon odore di fragola.
Come cazzo avessero fatto i rottinculo a capire che potevano usare lo sciroppo anche ingoiandolo e facendo esplodere corpi umani rimaneva un mistero. Ma il funzionamento era davvero geniale. Demoniaco, ma geniale.
I kamikaze – per lo più belle ragazze disposte a immolarsi per il vero Dio, ma a quanto pare anche uomini adesso – ingoiavano lo sciroppo e andavano a pescare le loro vittime nei luoghi di perdizione – discoteche, bar, ristoranti. Provocavano, vere e proprio arrizzacazzi. E di uomini disposti a provarci, ignari, ce n’erano molti. E quando il dongiovanni, incredulo, vedeva che ci stavano, e partiva con il bacio, BUM. Gli ormoni dell’eccitazione lavoravano come un detonatore. Erano il calore necessario a far scoppiare lo sciroppo nel corpo della donna/bomba.
Geniale, appunto.
“E’ vero, Valerio. Ci servi. Mi servi. Ma mi servi vivo.” – lo sguardo di Fardo era duro. “Non mi serve un altro che si faccia saltare per aria con la prima puttana che bacia. Non sei pronto. Non voglio tu faccia la fine di quel coglione di Tarigo”.
C’era solo un modo per disattivare un frutto. Individuarle era facile – di solito erano quelle vestite piu’ da troia. Bisognava poi abbordarle senza che sospettassero che eravamo poliziotti. Il bacio era il momento cruciale: non appena si avvertiva il sapore dello sciroppo, bisognava ucciderle, PRIMA che il calore dell’eccitazione le facesse esplodere. Non era facile. Perché si rischiava di uccidere donne innocenti. Zoccole, ma innocenti. Solo il sapore di fragola dava la certezza che fossero frutti. A volte si aspettava troppo però. Tarigo, alla sua prima uscita, si era fatto saltare in aria. E io che ero con lui ero sopravvissuto per miracolo. 148 morti.
Sopravvissuto ma ancora incapace di rientrare a far parte della squadra di Fardo. Tardavo troppo a sentire i sapori, e il sapore della glassa nella mia bocca me lo ricordava in modo brutale. Fardo aveva ragione. Se non fosse stata un’esercitazione saremmo saltati per aria.
Avviandomi verso casa, avvertii l’esplosione lontana. Il Telegiornale parlo’ di altri 240 morti. Morti per un bacio dal sapore di fragola.
In trappola - Limbo dei portoni
Voglio che scriviate un racconto su un momento in cui vi siete sentiti in trappola. Pensate a quale sensazione avevate: un profondo senso di claustrofobia, panico o rabbia, per esempio.
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Limbo dei portoni
La riunione era alle 3, negli uffici di Microsoft. Mi ricordavo bene la via in cui l’edificio si trovava, ma solo vagamente quale fosse il portone esatto. Ero partito dal mio ufficio, a piedi, con largo anticipo: dal momento che presidevo il comitato che si sarebbe riunito nel pomeriggio, volevo avere tempo per accogliere i vari membri mentre arrivavano alla spicciolata e farci due chicchiere. Le elezioni per il rinnovo della presidenza avrebbero avuto luogo di lì a poco, e due chiacchiere potevano aiutare la rielezione.
Verso le 14,30 ero di fronte a un edificio con vari cartelli. E nessuno dei cartelli aveva un nome a me familiare. Non vedevo nessuna targa che indicasse Microsoft. Vedevo però, attraverso la vetrata, che nell’androne del palazzo c’erano dei campanelli, con grande targhe di metallo che era impossibile leggere per il riverbero del sole.
Spinsi il portone, che si aprì con un po’ di fatica. Non ci feci caso. Arrivai di fronte ad un secondo portone, una seconda vetrata, con i campanelli a sinistra, e le grandi targhe a destra. Lessi le targhe, ma di Microsoft non c’era assolutamente traccia.
I campanelli erano senza nome. Diedi un’occhiata attraverso la seconda vetrata. Non vidi nessuno. Tornai sui miei passi, mi ero sicuramente sbagliato di edificio. Quello di Microsoft doveva essere l’edificio dopo. Sono tutti uguali gli edifici in questa zona.
Feci per aprire il portone per uscire, ma non si aprì. Tirai con forza, ma niente. Posai a terra la cartella di pelle nuova. Mi dispiaceva posarla per terra, questa era la prima volta che lo facevo, ma mi ero reso conto che ero in trappola.
Cominciai a tirare con tutte le mie forze. Ma non successe niente. Riflettendo sul da farsi, vidi passare John, della IBM. Stava andando alla riunione che avrei dovuto presiedere, e che sarebbe cominciata tra cinque minuti. Cazzo. Picchiai con il pugno sul portone. Si girò impaurito e mi vide. Gli spiegai attraverso il vetro il bel casino in cui ero finito. Rise, un po’ preoccupato però. Gli chiesi di avvertire gli altri che sarei stato in ritardo.
Tornai al secondo portone, quello che mi avrebbe dato accesso al palazzo. Spinsi con forza, ma non si apri’ niente. Suonai tutti i campanelli a caso. Ma non successe niente. Cominciai a dare spallate al portone. Per entrare nel palazzo. Strano come la mia reazione fosse quella di penetrare ancora di più nel problema, piuttosto che cercare di uscirne.
Fu a questo punto che benedissi l’inventore del telefonino. Tirai fuori il fidato Blackberry e chiamai Julie, la mia segretaria. Le spiegai che cos’era successo, e le chiesi di chiamare un fabbro che potesse venire ad aprirmi la porta. Mi disse di non preoccuparmi.
Non appena buttai giù il telefono mi resi conto che avevo fatto una cazzata. Una volta, qualche anno fa, ero rimasto fuori di casa, senza chiavi, e avevo dovuto chiamare un fabbro che manca poco si rifiutò di aprirmi la porta, perché non avevo con me i documenti che provassero che ero il proprietario dell’appartamento in questione (il portafogli era rimasto in casa). Figuriamoci cosa sarebbe successo in questo caso: un tizio, italiano, dentro un edificio chiaramente disabitato, a Parigi.
Richiamai Julie, e le dissi di lasciar perdere il fabbro e di chiamare direttamente la polizia. Nel frattempo mi resi conto che i cartelloni che avevano attirato la mia attenzione fuori dall’edificio dovevano probabilmente essere di imprese immobiliari a me sconosciute. C’erano numeri di telefono. Il palazzo era vuoto, ovvio. E loro lo affittavano. Composi il primo, della società Atisreal.
Mi rispose una voce con un messaggio preregistrato. Gli uffici erano chiusi per ferie.
CAZZOCAZZOCAZZOCAZZOCAZZOCAZZO.
Cominciavo ad avere caldo. Tolsi la giacca del complete Boss grigio che avevo comprato un mese addietro. Cominciai a pensare che magari avevo caldo perché l’ossigeno stava cominciando ad esaurirsi. Capii subito che stavo dicendo una stronzata immonda: era vero che ero bloccato tra due porte, ma era altrettanto vero che tra le due porte c’erano almeno 70 metri quadrati. Dubito che si potesse esaurire l’ossigeno di 70m2, per dieci metri di altezza, in dieci minuti. Altrimenti sarei morto da un pezzo in casa mia. Che non e’ 70 metri quadrati (magari, a Parigi…) e non ha I soffitti di dieci metri (menomale, sai sennò le bollette..)
Provai il numero del secondo cartellone. Ancora una volta un messaggio preregistrato che mi chiedeva di immettere il numero di riferimento o l’indirizzo dell’immo bile per il quale si chiamava. Non avevo né l’uno, né l’altro. Mi mancava il numero civico.
CAZZOCAZZOCAZZOCAZZOCAZZOCAZZO.
Provai il numero sul terzo cartellone. Rispose qualcuno. Spiegai alla signorina che cos’era successo. E m’immaginai, mentre mi sentivo parlare, che cosa stesse pensando, e come la mia storia suonasse completamente irreale.
Pronto, buongiorno, mi chiamo Piero Fardo. La chiamo perché sono rimasto bloccato in un edificio che credo la vostra azienda si occupi di affittare. Mi trovo in Rue des Carmelitains, non so il numero. Pensavo questo fosse l’edificio della Microsoft, dove avevo un appuntamento, sono entrato, ma poi non sono piu’ potuto riuscire.
Si’ la porta era aperta. La prima porta, voglio dire. La seconda no.
Glielo sto dicendo: era aperta. Crede che l’abbia sfondata per entrare in un edificio vuoto?Perché la starei chiamando, scusi? Se l’avessi sfondata, potrei uscire da qui, no?
Senta, io la capisco, sembra una storia assurda, ma magari non è che ha le chiavi dell’edificio e può venire ad aprirmi o mandare qualcuno che apra?
Perfetto, le do il mio numero. Mi faccia sapere, la prego. Nel frattempo ho chiamato anche la polizia.
Beh, che voleva che facessi? Vorrei uscire al più presto da qui.
La polizia arrivò esattamente nello stesso momento di Julie. Stupida come una pietra, a volte, la cara Julie, ma stavolta era venuta a farmi compagnia. Sembravamo in uno di quei film dove un carcerato parla ai liberi attraverso un vetro.
Il poliziotto ovviamente non ci poteva credere. Ripetei la storia raccontata all’agente immobiliare, e dissi che piuttosto che chiamare un fabbro – che avrebbe comunque chiamato la polizia – avevo preferito chiamare loro direttamente.
Mi chiesero i documenti. Non potevo ovviamente passarglieli, ma glieli mostrai attraverso il vetro. Presero nota e tornarono alla macchina, ovviamente per fare dei controlli sul nome e il resto. I controlli fortunatemente parvero andare bene, perché di lì a poco il poliziotto tornò e mi disse che aveva parlato con l’agenzia immobiliare e che avrebbero mandato qualcuno al più presto.
Ma pareva proprio di no, invece.
Perché proprio nel momento in cui il poliziotto mi stava spiegando queste cose, il mio telefonino squillò. Era il proprietario dell’edificio.
Chi ero?
Com’ero entrato nella sua proprietà?
Perché ci ero entrato, se era vuota?
Cosa stavo cercando di ottenere?
Spiegai nuovamente la storia: cercavo di andare ad una riunione del cazzo e mi sono sbagliato di edificio e questo cazzo di edificio mi ha imprigionato e sono in trappola e secondo lei ho secondi fini?
Gli dissi che avevo la polizia di fronte. Mi chiese di farcelo parlare. Come cazzo faccio a fartici parlare, brutto coglione, se io sono dietro a questa cazzo di porta e il poliziotto è fuori?
Penso che il mio tono alterato sortì qualche effetto. Mi disse che avrebbe mandato il “suo uomo”.
Mi sentivo come in uno zoo: fuori, nel mondo reale, la gente passava. Molti dei passanti ignoravano che ci fosse qualcuno imprigionato proprio di fianco a loro. Il poliziotto e Julie chiacchieravano fuori, aspettando un recupero annunciate, ma che tardava parecchio.
Pensai a come si dovessero sentire gli speleologi quando a volte rimanevano intrappolati in caverne buie e lontane, dove il blackberry è utile come un una mazza da golf per giocare a calcio.
Pensavo al tempo che passava, che per la prima volta in molti mesi mi vedeva completamente immobile, senza far niente. Non stavo correndo a una riunione, non stavo preparando una riunione, non stavo partecipando a una riunione, non stavo stilando una strategia di mercato per i prossimi cinque anni, non stavo scrivendo una presentazione che giustificasse un aumento del budget del 5% l’anno prossimo. E poi non stavo tagliando l’erba, non stavo preparando la cena, non stavo leggendo una favola a mia figlia, non stavo consigliando mia moglie su come regolarsi con la sua capa stronza, non stavo aiutando il figlio del vicino a rimettere a posto la catena della bicicletta…Non stavo. Punto. Anzi, forse l’unica cosa che stessi facendo era proprio stare. Stavo lì. E aspettavo.
Mentre mi perdevo in queste elucubrazioni, arrivò il Salvatore. Era vestito come un accattone. Pantaloni a quadri macchiati in vari punti, larghi e trucidi. Sandalo aperto, a strappo, con calzini che molto tempo fa avrebbero forse potuto essere bianchi. Una maglia stile indiano, da santone, con i peli che uscivano dallo scollo a V. Vari braccialetti etnici. Capelli lunghi, con broccoli biondi striati di bianco.
In cirostanze normali lo avrei guardato con profondo odio. Qui lo amai. Arrivò con l’ascensore, dall’interno, e aprì la porta. Lo ringraziai,gli spiegai ancora una volta cos’era successo, ma si vedeva che non si fidava. Provò ad aprire la porta bloccata, e mi chiese ancora come avessi fatto ad aprirla se ora era bloccata.
Avrei voluto prenderlo a testate, a quell punto, e cercare di spiegargli il concetto di PRIMA e DOPO: PRIMA non era bloccata, DOPO si è bloccata. Sai il concetto del tempo? Cazzo, era così difficile da capire?
La polizia, dall’esterno, vide il fricchettone. Si avvicinò alla porta, e discussero sul fatto se fosse tutto a posto o no. Che cazzo volesse dire, davvero, non lo so: per caso, potevano giungere alla conclusione che no, non era tutto a posto? E se l’avessero fatto, che cazzo avrebbe voluto dire? Mi avrebbero lasciato allora nel limbo dei portoni per sempre?
Il fricchettone tirò fuori dai pantaloni lerci un telefonino di un modello talmente vecchio che ormai neanche gli immigrati clandestini che vengono dall’Africa nera accetterebbero di usare.
Mistriosamente, funzionava. Capii che aveva chiamato il proprietario, che evidentemente voleva sapere chi fosse il pericoloso infilitrato che era entrato nel suo palazzo, sfondando – secondo lui – la prima porta, ma non riuscendo a sfondare la seconda, e poi restando bloccato, e chiamando la polizia.
Si chiarirono. Raccattai la cartella e la giacca (che non si erano impolverate, per fortuna) e seguii il Salvatore fricchettone all’interno dell’edificio. Prendemmo l’ascensore e andammo nel garage. Da li’, direttamente fuori, salendo su una rampa ai cui lati ovviamente dovevano esserci dei sensori che fecero aprire la saracinesca.
Ringraziai. Nel salutarmi, il fricchettone mi disse “se la prossima volta ti risuccede, sfonda anche la seconda porta e poi esci dal garage”.
Gli sorrisi, ripromettendomi di scoparmi sua moglie a spregio, se mai avessi la fortuna d’incontrarla, e andai alla riunione. Che nel frattempo era finita
Perso in montagna
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Quando ero piccolo, i miei genitori erano proprietari di una casa sull’Appenino Tosco-Emiliano, un vecchio mulino di grandi pietre grigie, vicino ad una cascata, in una stradina isolata. Credo l’acquisto di quella casa fosse stato il compimento di un sogno. Durò poco, perché dovettimo venderla pochi anni dopo, con vari problemi anche dal punto di vista legale, che si trascinarono per molti anni. Una classica diatriba tra venditore e acquirente che si concluse, alla fine, con una nostra sconfitta in tribunale, se ricordo bene.
Ci passavamo molti fine settimana invernali, a sciare, ma ci andavamo soprattutto d’estate. E veniva il momento delle passeggiate nel bosco. Momento che odiavo con forza. Perché avevo sempre paura di perdermi.
In realtà, per quanto i miei ricordi possano essere confusi, mi pare che non ci perdemmo mai. Ma mi ricordo bene la sensazione di sfinimento che provavo ogni volta che cominciavano queste passeggiate: per cercare mirtilli (di cui ero, e sono rimasto ghiottissimo), more, o per cercare i fantomatici funghi porcini (non ne trovammo mai neanche uno, in tutti quegli anni, se si esclude un gruppo di porcini grandissimi ma già marcito, una sera di settembre).
Mi ricordo che in macchina, mentre ci dirigevamo al campeggio delle acque scure,come lo chiamavo io, dove avremmo lasciato la macchina per cominciare la camminata, pregavo il Signore affinché facesse in modo che la macchina si fermasse: una foratura, un problema di carburazione, qualsiasi cosa, che ci impedisse di arrivare al parcheggio e di cominciare la nostra camminata.
Certo, avrei potuto rimanere a casa a giocare con i bambini di altre famiglie che, come noi, venivano a passare le loro vacanze lì. Ma questo avrebbe significato un supplizio addirittura peggiore della passeggiata: perché avrei passato il tempo semplicemente a preoccuparmi, struggermi nell’attesa di vedere le ore passare e notare che i miei genitori non tornavano, non sarebbero mai tornati, perché si erano persi sicuramente nel bosco.
Non so perché avessi queste paure. Non erano le classiche paure di essere lasciato solo. Non ho mai davvero temuto di essere lasciato solo. Ma avevo paura di perdermi, quello sì. Nel bosco. O che i miei genitori si perdessero senza che fossi con loro.
Era proprio la passeggiata nel bosco, il vero problema.
Non posso dire che questa paura mi abbia veramente segnato. Invecchiando, imparai ben presto ad amare le passeggiate nei boschi, anche se rimasi – e rimango tutt’ora – un vacanziero marittimo. Ma adesso mi appassiono a leggere le mappe dei sentieri, a guidare gruppi di amici nelle foreste vicino casa…
Ma non posso negare che quando mi trovo di fronte ad un lungo sentiero sconosciuto che si snoda in un bosco che non conosco, il pensiero di perdermi ritorna. Non posso lasciarlo fuori dalla mia mente. Anche se poi, passo dopo passo, comincio a camminare, e a sentire il profumo del bosco come un compagno di vecchia data.
Incidente al simil Dorsia
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