Vie di fuga

Ho baloccato con questo racconto lungo per molti mesi. Ve lo lascio qui, a mo' di epitaffio. Non e' ancora finito, ma non vuol dire che non abbia un senso.


Vie di fuga


1

La mattina del 22 ottobre il cielo era terso e faceva freddo. I grattacieli grigi, rossi, bianchi si stagliavano su uno sfondo azzurro scuro che li rendeva irreali. Le luci della citta' si sarebbero spente di li' a poco. Lo scenario per i primi dieci minuti di traffico cittadino non avrebbe potuto essere dei migliori.

Sull'autostrada, nel silenzio della propria auto, Jack ripassava mentalmente la lista di cose che avrebbe dovuto fare di li' a poco: la revisione del comunicato per la settimana della salute; la revisione di alcuni cartelloni da appendere in bacheca sulle misure preventive per ridurre la possibilita' di contagio della febbre suina (lavatevi le mani sempre dopo aver starnutito; se hai il raffreddore, NON portare i tuoi germi in ufficio: lavora da casa! e ammazza solo i tuoi familiari, pensava Jack); la stesura di un memo interno sulla possibile vendita di una parte della business unit. Ecco, soprattutto quest'ultima cosa gli avrebbe portato via sicuramente un paio d'ore.

Perso tra questi pensieri, Jack arrivo' piu' rapidamente del solito all'uscita 12 dell'autostrada, la sua. Il traffico sembrava scorrere molto velocemente, e se ne rallegro'.

I colori d'autunno stavano facendo un ottimo lavoro nel cambiare vestito al paesaggio. Gli alberi che avevano formato l'avanguardia rossa gia' ai primi di ottobre erano stati ormai raggiunti da tutti gli altri. Non era il Rhode Island, con i suoi ottobri rossi e gialli sogno, ma anche qui l'autunno sapeva stupire.

L'ufficio della compagnia per la quale Jack lavorava, la MegaCorporation Inc., era in un casermone grigio a tre piani, simile a cento altri della periferia di Chicago. Dall'esterno ogni piano era di una sfumatura di grigio diversa, dalla piu' scura in basso, alla piu' chiara in alto. Era brutto, e gli faceva pensare a una nave spaziale sgraziata. Se gli alieni avessero avuto delle navi spaziali netturbine, probabilmente la forma sarebbe stata questa, ripeteva Jack a sua moglie.

La bruttezza esterna aveva una diretta corrispondenza all'interno dell'edificio: un labirinto di muri grigi di diversa tonalita', una serie di uffici (loculi?) molti dei quali senza una finestra esterna. Mobilio di legno scuro, per lo piu', vecchio e scheggiato. Divieto assoluto di appendere quadri o qualsiasi altra decorazione suscettibile di creare problemi per la sicurezza dei dipendenti, recitava uno dei cartelli nella bacheca appena entrati. Jack si era sempre chiesto quale fosse il vero significato del cartello: forse i quadri appesi ai muri avrebbero fatto capire agli impiegati la merda di edificio in cui erano, e la cosa avrebbe provocato un'isteria di massa. Chissa'.

A Jack piaceva l'ultima parte del percorso per arrivare aal suo ufficio: poco prima dell'ultima curva la strada era magnifica: delle colline belle, anche se artificiali, prati verdi con qualche albero sparso, nascondevano alla vista i vari edifici aziendali che si susseguivano in circolo come pietre di un rosario. Alcuni colleghi gli avevano detto che in realta' le colline che gli piacevano tanto erano delle discariche ricoperte. Ma Jack aveva accolto la notizia con una scrollata di spalle. Pensava che il risultato fosse bello davvero. Proprio come i seni rifatti, a volte: chi se ne fregava se erano rifatti se erano rifatti bene?

All'ultima curva prima del suo edificio, getto' uno sguardo allo Starbucks dove molti dei suoi colleghi si fermavano la mattina per rifornirsi della loro dose di blanda caffeina. Sembrava esserci meno gente del solito, e tra le automobili parcheggiate non ne riconobbe nessuna dei suoi colleghi.

Al verde del semaforo, Jack svolto a sinistra, e costeggiando la fila di sequoie piantate da non piu' di un paio d'anni (quanto avevano speso per piantarle gia' cosi' grandi, ecco dove vanno le mie tasse), entro' nel vialetto che lo avrebbe portato al suo ufficio. Destra, una mezza curva a sinistra, destra ancora, e poi l'ultima curva a sinistra, e finalmente avrebbe visto gli ultimi due piani del netturbino interspaziale.

Solo che quella mattina del 22 Ottobre l'edificio non c'era.

Jack penso' di aver sbagliato strada. Sicuramente aveva imboccato un vialetto sbagliato: i mille pensieri per la testa lo avevano fatto entrare nel vialetto dopo il suo, quello che portava al sito in costruzione. Era ovvio. Anche se gli sembrava che l'edificio in costruzione fosse comunque in stadio molto piu' avanzato: qui non c'era proprio niente, solo sterpaglia, come se i lavori non fossero neanche cominciati.

Fece retromarcia con la sua auto, una Ford Escape del 2005, e ritraccio' il suo cammino fino all'imbocco della strada principale. Svolto' poi a destra per andare a prendere il vialetto giusto. Solo che si rese subito conto che il vialetto giusto era proprio quello da cui era appena uscito: lo Starbucks era proprio li' a 200 metri; il distributore di benzina Marathon con la benzina a 2.49$ a gallone era li' anche lui; il negozio di caccia e pesca c'era anche quello.

Jack penso'di essere molto stanco. Rise un risolino di autocommiserazione, anche se sulla nuca un leggero brivido gli fece capire che una parte della sua mente non era cosi' sicura di quello che stesse succedendo.

Ritorno' al semaforo. Rigiro' l'auto. Rifece la strada che aveva fatto ogni mattina negli ultimi 12 anni (che no, non poteva essere quella che aveva appena fatto, e che lo aveva portato al nulla): svolto' ancora una volta a sinistra. Le sequoie c'erano. Riconobbe anche quella contro cui Elisabeth aveva sbattuto una mattina dopo una gelata. Il segno dell'incidente c'era ancora, anche se sbiadito (troppo sbiadito?)

Segui' la strada che svoltava naturalmente a destra. Rallento' prima della mezza curva a sinistra. Il fossato che correva accanto alla strada, era quello di sempre? Non lo sapeva. Aveva costeggiato mille volte quel cazzo di fossato, ma non ci aveva mai fatto caso (e questo, concluse Jack, era un sintomo di sanita' mentale: la gente che passava la vita a fare caso ai fossati non poteva essere normale...).

Svolto' di nuovo a destra. Il pilone con la centralina della luce c'era ancora. Se lo ricordava bene, perche' una volta, dopo una tempesta di ghiaccio durata una mattinata intera, la luce era andata via dappertutto, e con Lucas, il direttore marketing, Jack era venuto a vedere se fosse saltato qualcosa nella centralina o se invece fosse un problema piu' grave. La centralina era uguale a quella di sempre.

Ed eccolo all'ultima curva a sinistra. Jack sapeva che svoltando, avrebbe visto il netturbino dello spazio, ne era certo. Pero'. Pero' come mai non aveva incrociato nessuno sul vialetto? Alle 7.25 di mattina questo vialetto avrebbe dovuto essere abbastanza trafficato: UPS, colleghi, fornitori per la mensa...avrebbero dovuto superarlo, visto che andava pianissimo.

Magari era una festa comandata, e non se n'era reso conto...

Ripercorrendo nella propria testa tutte le feste comandate del mese di ottobre (allora, c'e' Columbus Day il 12, e poi...e poi), Jack fece l'ultima curva a sinistra. E. Cazzo: il suo ufficio non c'era.

Non c'era il parcheggio, non c'era l'edificio, non c'era il cancello a delimitare il perimetro, non c'era la torretta dalla quale si entrava nei tunnel sotterranei che riparavano dal freddo durante l'inverno.

Non c'era nulla.

Jack sudava. L'indicatore della temperatura esterna lo informava che fuori c'erano 9 gradi centigradi. Dentro, ce n'erano 15, forse. Ma Jack sudava.

In preda al panico

...mi dovranno rinchiudere, Rachel perdera' la pensione, e Catherine sara' presa per il culo a vita dalle sue amiche "Catherine ha il padre pazzo, Cahterine ha il padre pazzo, Catherine ha il padre pazzo..."

Jack apri' lentamente lo sportello. I suoi movimenti come al rallentatore, come se a far entrare l'aria di quel luogo si rischiasse una qualche contaminazione.

L'aria sembra buona. Sono io ad assere pazzo.

Guardando il proprio piede mentre si appoggiava sull'asfalto, Jack si rese conto che la stradina su cui si trovava continuava solo per poco piu' di cento metri, per finire poi in uno sterrato. Si allontano' dalla sua macchina.

In lontananza, attravero l'edificio che non c'era, Jack vedeva alcuni alberi che delimitavano il parcheggio del supermercato Jewel Osco. Lo guardo' per un paio di minuti: non lo aveva mai visto da quest'angolazione. A destra, alcuni aceri salivano sulla collinetta al di la' della quale c'era (avrebbe dovuto esserci?) la sede della Fast Nation.

Jack si mise a correre verso la collina. Le scarpe con la suola di cuoio perdevano aderenza nella brina mattutina, e un paio di volte Jack scivolo', sporcandosi i pantaloni di terra sulle ginocchia. In meno di un minuto Jack fu in cima alla collina, ansimando. Fast Nation era dove doveva essere.

Guardando verso sinistra, Jack vide anche il Jewel Osco: anche quello era dove doveva essere. La nebbiolina del mattino, che nei campi della periferia persisteva piu' a lungo che in citta', gli impediva di vedere se anche la International Shipper fosse dove doveva essere, ma una sagoma in lontananza gli diceva che si', c'era anche quella.

Jack si giro' a guardare la sua auto. Dall'alto, la Ford bordeaux, attorniata dal verde dei prati, non ancora diventato color marrone inverno, era sola. Jack cerco' di concentrarsi

Cerca, cerca, cerca

e si rese condo che non era solo l'edificio a non essere dove avrebbe dovuto essere. Non c'era neanche nessuna traccia di fondamenta: il terreno sul quale il suo edificio era sempre stato (davvero?) era ricoperto di sterpaglia di varia lunghezza.

Per un attimo Jack si chiese se quelle piante fossero tipiche di quella zona. La famosa vegetazione della prateria che in citta' ormai si trovava solo alla Northerly Island. Si riprese, scuotendosi.

E ora che cazzo faccio?

Jack ridiscese la collinetta fino alla macchina. si avvicino' poi al terreno che avrebbe dovuto essere ricoperto di mattoni, plastiche e cemento. Cerco' di sentire se il terreno emanasse un qualche cosa di strano, e mentre formulava questo pensiero si mise a ridere.

Che cazzo sto facendo?

Cammino' fino al centro del campo (si', questo e' un campo). Non senti' nessuna vibrazione strana. Avverti' il freddo del bagnato che passava attraverso le scarpe e i pantaloni umidi di rugiada e fango. Cerco' di trovare con gli occhi la zona del campo nella quale il suo ufficio al piano terra avrebbe dovuto trovarsi. Non riusciva ad orientarsi.

Ritorno' lentamente alla macchina. Risali', chiuse la porta e accese la radio.

...ne pensi della partita di ieri sera, John? Beh, credo che i Cubs abbiano giocato splendidamente, ma non credo che possano ripetersi con i Cal...

Jack spense la radio. Chiuse gli occhi, appoggio' la testa al volante, nella posizione di salvataggio che t'insegnano a prendere sugli aerei in caso d'impatto. Stette immobile cinque minuti. Quando riapri' gli occhi il campo era ancora li'.

2

Nel parcheggio dello Starbucks vicino all'ufficio (il campo) c'erano tre macchine. Jack parcheggio' ed entro'.

La barista - giovane, sui 22 anni, con una coda di cavallo bionda e brufoli in abbondanza - lo saluto' con un sorriso.

"Buongiorno, e benvenuto", gli disse. Jack la guardo' intensamente: no, non l'aveva mai vista. Ma questo non voleva dire niente: veniva a questo Starbucks di rado.

Jack si avvicino' al bancone. "Buongiorno", disse. La voce gli era uscita molto piu' malferma di quanto avesse sperato, ma d'altro canto la sua mente oscillava tra il pensiero che un edificio nel quale era andato ogni giorno negli ultimi 12 anni fosse sparito nel nulla, e il pensiero che l'edificio non fosse neanche mai esistito.

"Ha visto che giornata stupenda?", rispose la barista. "E' perfetta per andare a fare una camminata. Lei e' di queste parti? Perche' qui attorno mi dicono che ci siano delle passeggiate bellissime, soprattutto in questo periodo dell'anno in cui gli insetti sono gia' morti e non fa ancora troppo freddo", aggiunse sorridendo. "Io odio gli insetti, sa?"

"No, non sono di qui. Ma lavoro in un ufficio non troppo distante", rispose Jack.

"Ah si', e dove?"

Jack era venuto per questo: voleva avere conferma di non essere pazzo. "Ecco...infatti, ecco...". Si inumidi' le labbra. La barista lo guardo' un po' straniata. "Io lavoro per la MegaCorporation, a meno di un chilometro da qui. La conosce?" Jack sudava nel suo giubbotto da mezza stagione. Si accorse con un po' di ritardo di aver afferrato il bordo del bar e di avere le nocchie della mani bianche a causa della forza con cui lo stava stringendo. Cerco' di rilassarsi.

"Mmm...Mega Corporation. Certo che la conosco, ma non sapevo avessero un ufficio anche qui..."

Sono pazzo.


"...ma lavoro qui da poco", continuo' "quindi non faccio testo", aggiunse la cameriera sorridendo." Che cosa prende?"

Non sono pazzo.
"Un latte grande, grazie".

"James, ehi". La cameriera si rivolse ad una porta socchiusa dalla quale veniva una luce fioca. Un ragazzo afroamericano con i capelli rasta ne usci' tenendo in mano un barattolo enorme di chicchi di caffe'. Sorrise alla ragazza e a Jack. "James, un latte grande per il signore".

Jack si sposto' verso il punto del bancone dove avrebbe ricevuto il caffe'. Non aveva la forza di parlare: tutta la poca sanita' mentale che pensava di avere ancora era stata usata per cercare conferme dalla ragazza. Non ne aveva avute: ne' conferma della propria sanita' mentale, ne' conferme della propria pazzia. Ma Jack era un uomo dal bicchere mezzo vuoto. L'idea di ripetere lo stesso sforzo col rasta, di porgli le stesse domande, gli pareva una fatica insormontabile. E poi se sono pazzo non lo voglio sapere.

"Ecco a lei, signore, un latte grande", disse il rasta porgendogli la tazza di carta del caffe'. "Lo zucchero e' sul bancone dietro di lei".

Jack si diresse al bancone, prese il barattolo di zucchero, e proprio nel momento in cui aveva deciso di andarsene senza aggiungere altro, il rasta gli rivolse la parola di nuovo. "Deve viaggiare molto, oggi? Ha bisogno d'indicazioni? E' facile perdersi qui intorno, le strade sembrano tutte uguali".

Jack cerco' di capire se il rasta lo stesse prendendo per il culo. Non vide malizia nel suo sguardo. Suo malgrado, decise di cogliere la palla al balzo e di cercare di appurare il proprio grado di pazzia.

"No, veramente sto andando al lavoro", rispose. "Lavoro alla MegaCorporation, proprio qui vicino". Si fermo'. Studio' il volto del rasta con attenzione. Non vide lampadine accendersi. Continuo'. "E' proprio qui dietro l'angolo, meno di un chilometro".

Di' che la conosci, di' che la conosci di' che la conosci.

"E' una delle nuove costruzioni giu' a Delmont?" chiese il rasta. "Credevo non le avessero ancora finite".

Pazzo.

"No", rispose Jack. Una parte di se' voleva andarsene gridando (ululando) a mani alte, come nei film di fantascienza anni '50. E forse guardandosi indietro avrebbe visto il mostro, l'edificio del suo ufficio (il campo?) corrergli dietro. Un'altra parte voleva accasciarsi li', con il barattolo dello zucchero in mano e morire. O almeno svenire. E risvegliarsi e scoprire che era tutto falso. La parte di mezzo intervenne. "No...in realta' e' un'azienda che e' qui dal 1994...". Sudore sulle labbra. "Io ci lavoro dal 97".

"Strano non la conosco", aggiunse il rasta. "ma ci sono cosi' tanti uffici qui attorno che..."

Il rasta si fermo'. "Signore, si sente bene"? Corse verso Jack che nel frattempo cercava di non collassare su un tavolino. Sorretto dal rasta, Jack si sedette su una sedia, ma nel farlo il tavolino si rovescio', e la tazza di caffe' cadde per terra.

"Tutto a posto signore? Vuole che chiami un'ambulanza?".

No.

"Signore? Vuole che chiami un'ambulanza? Ha delle medicine su di lei o in macchina che vuole che vada a prendere?". Il rasta o la ragazza. Non importava.

No.

"Signore?"

Solo allora Jack si rese conto che i suoi no erano rimasti nella sua testa. "No" disse, "grazie. E' solo un mancamento improvviso". Nella sua testa. Solo nella sua testa. Quanti dei 12 anni trascorsi erano trascorsi solo nella sua testa?

"James, ti chiami James, vero?" disse Jack al rasta. Il rasta annui'. "James, fammi un favore. Prendi il mio blackberry e digita il numero sotto "ufficio". Quando ti rispondono chiedi di parlare con Emma. Io non ce la faccio: non riesco a vedere lo schermo". Il telefono!!! Ma come aveva fatto a non pensarci! Il telefono!

"Certo, signore, non c'e' problema, lo faccio subito". James prese il blackberry rosso dalle mani di Jack. La tastiera era sbloccata, e cerco' il nome ufficio. Jack lo guardava come un paziente a cui hanno fatto mille esami guarda le labbra di un medico che arrivi con il responso, vita o morte. Se non avesse trovato il numero, se il numero sul suo telefonino non ci fosse proprio stato, sarebbe stata un'altra tacca nella sua pazzia.

"Eccolo, sto chiamando".

L'ha trovato. Il numero esiste. ALLELUIA. Adesso parlo con Emma e le chiedo di questo cazzo di scherzo da prete che mi hanno fatto, e domani ne rideremo insieme tutti. GRAZIE O SIGNORE GRAZIE.

Il rasta si stacco' il telefonino dall'orecchio. Guardo' lo schermo, senza dire niente, armeggio' un attimo con la tastiera e se lo rimise all'orecchio. Jack non lo vide: aveva gli occhi chiusi in una preghiera di ringraziamento al Signore. Ma lo senti' quando James disse "Ha un altro numero per il suo ufficio? Questo dice che non esiste".

3

Le pratiche al pronto soccorso avevano preso quasi tutta la giornata. Arrivato in stato confusionale, l'odore tipico dell'ospedale ebbe su Jack lo stesso effetto dei sali che si facevano annusare alle signore nei romanzi dell'800: si era ripreso immediatamente, ed aveva concepito un piano semplicissimo per evitare di essere internato: non dire nulla.
Ai dottori aveva semplicemente detto di aver avuto un mancamento, un abbassamento di pressione. No, non prendeva nessuna medicina. No, non dovevano avvertire nessuno. Si', era sposato e aveva una bambina, ma non era il caso di farle preoccupare. Aveva solo tentennato quando gli avevano chiesto se non dovesse per caso avvisare qualcuno in ufficio. No, aveva risposto, semplicemente.
Alle quattro del pomeriggio Jack era in strada. Le analisi non avevano mostrato niente di anomalo. Prese un taxi per recuperare l'automobile lasciata al parcheggio dello Starbucks vicino al lavoro. Non entro' per vedere se il rasta e la cameriera fossero ancora li'. Noto' che ancora una volta non riconosceva nessuna delle macchine parcheggiate. Decise di non tentare di nuovo di trovare il proprio ufficio, monto' in macchina e si diresse verso casa.
I 45 minuti che lo separavano da casa furono impegnati in un immenso sforzo mentale per risolvere il problema in quel momento piu' importante: cosa dire a Rachel, e come dirlo. Questo sforzo era pero' reso complicato dal tentativo di bloccare una voce interna alla sua testa che aveva cominciato ad insinuare un dubbio: Rachel esiste? E Catherine, sua figlia?
Jack cerco' di accantonare i dubbi. Rachel esisteva. E avrebbe avuto una spiegazione razionale. Il problema era che l'unica spiegazione razionale che lui riusciva a concepire era che il suo ufficio non era mai esistito: era sotto psicofarmaci, doveva essere per forza cosi', e l'ultima settimana aveva scordato di prenderli, ed ecco il risultato.
Intravedendo la sua villetta, con il garage per due macchine, il cesto da pallacanestro, e la sua fila di faggi su due dei quattro lati, Jack fu sollevato, e batte' le mani urlando "Eddai!" . Era gia' un primo passo verso la sanita' mentale. O almeno un primo argine verso un abisso di pazzia.
Entrato in garage, riconobbe la macchina di Rachel. Riconobbe gli attrezzi che usava le poche volte che provava a fare qualcosa in casa, e il pallone firmato da Michael Jordan buttato in angolo. Riconobbe la sua vita.
Aveva deciso che la cosa migliore era sedersi con Rachel e dirle tutto, semplicemente. Senza cercare vie di fuga o scorciatoie.
L'odore di zucca (zuppa? pane?) lo accolse non appena apri' la porta di casa. Le grida e i ridolini di Catherine che si sentivano dalla cucina gli fecero capire che stavano facendo i biscotti alla zucca, usando le formine a forma di fantasma, zucca, e pipistrello che aveva comprato tre anni fa, e che venivano rispolverate con l'avvicinarsi di Halloween.
Jack si fermo' sulla porta della cucina, inalando piu' odore e familiarita' possibili. Dovette fare uno sforzo profondo per mantenere il controllo.
L'ultima serata di normalita'?
Entro' in cucina, e Rachel tiro' un urlo. Si era scottata con la pentola a pressione.
"Ciao amore, sei a casa presto", disse, mentre metteva la mano sotto il getto dell'acqua fredda, nervosa. "Papa'!!". Catherine salto' giu' dallo sgabello della cucina tenendo in mano la formina a forma di fantasma, e corse verso Jack, che la prese in collo facendo due giravolte.
Non disse niente. Stringeva Catherine e guardava Rachel. Sua moglie ci mise poco per capire che c'era qualcosa che non andava.
"Dobbiamo parlare, immagino", gli disse con un sorriso preoccupato. Jack annui': una sola parola e le lacrime trattenute per tutta la giornata sarebbero uscite.
"Catherine, sono le cinque, prepara il bagno che tra un po' andiamo a letto", disse Rachel, prendendo la formina a fantasmino e mettendola sul tavolo. Catherine fece poche storie e si diresse allegra verso il bagno.
Quando sua figlia fu uscita dalla cucina, Jack si sedette su uno sgabello. Si appoggio' al bancone sporco di pasta per biscotti e si prese la testa tra le mani. Sua moglie si mise di fronte a lui, con il bancone in mezzo. "Guardami, Jack", disse. "Dimmi che c'e'".
Jack la guardo'. Rachel si rese conto di non aver mai visto suo marito con gli occhi lucidi, e credette di capire.
"Jack, vuoi lasciarci?"
Lo shock fu cosi' forte che Jack, pur avendo sentito, non riusciva a rispondere. "Vuoi lasciare me e Catherine, Jack?" continuo' sua moglie. "Guardami, Jack. Guardami e dimmelo".
Jack si alzo', giro' attorno al bancone si avvicino' a sua moglie e cerco' di abbracciarla. Lei rimase fredda, dura, come il mestolo di legno che aveva ancora in mano. Quando riusci' ad abbracciarla, Rachel comincio' a singhiozzare.
"Mi dispiace Jack, mi dispiace davvero", blaterava tra le lacrime. "So che e' difficile, ma io ti amo. Ti prego proviamoci ancora". Il tremore del corpo rendeva incomprensibili le altre parole. "Ti prego Jack, non lasciarmi ora. Me lo merito, ma non lasciarmi".
Jack non disse niente. Nella pazzia della sua giornata, era riuscito a dimenticare l'immagine di sua moglie che si faceva scopare da dietro, con la gonna alzata e probabilmente le mutande appena spostate, da uno sconosciuto. Era la festa di compleanno della migliore amica di lei, nel dicembre scorso: era andato in bagno al piano di sopra, ed eccoli contro lo stipite di una porta. Si era sempre chiesto se il fatto che potessero essere scoperti l'avesse eccitata di piu'. Se fosse stata un'idea sua o dello sconosciuto. Sconosciuto che per lei sconosciuto non era, ovviamente: un avvocato che se l'era scopata per sei mesi.
Rachel aveva passato mesi a scusarsi, a cercare di spiegare cosa fosse successo. Lacrime, scuse, professioni d'amore. A lui non interessava. L'immagine di sua moglie scopata da uno sconosciuto lo aveva scosso, certo, ma il suo restare con lei era dovuto a pigrizia. A una scelta di non sovvertire l'ordine naturale delle cose, e a non perdere Catherine. Ne erano derivati benefici: Rachel da allora era stata una moglie ideale.
Jack si stacco' da Rachel. "Ehi, non ti preoccupare", le disse asciugandole una lacrima sul viso. "Non e' questo". Non si sentiva in grado di consolarla per diminuire il suo senso di colpa.
"Allora che cos'e' Jack? Dimmi che succede", disse Rachel mentre si soffiava il naso con un fazzoletto che teneva sempre nella manica del maglione.
Chissa' se c'era un fazzoletto nella manica del vestito mentre si faceva scopare da Mr. Avvocato. Scaccio' il pensiero abbassando lo sguardo. "E' il lavoro", disse. E poi d'un fiato: "Stanno riorganizzando la struttura, e forse finiranno per licenziarmi".
La decisione di non dire niente a sua moglie era stata presa a livello insconscio. Non poteva dirle la verita'. L'avrebbe fatto internare? Sarebbe tornata con Mr. Avvocato? Non gli importava. Ma avrebbe perso Catherine.
"E' solo questo, Jack?", chiese Rachel con uno sguardo che assomigliava a quello di un cane bagnato che ti prega di farlo entrare in casa. Gli prese una mano, se l'avvicino' alla bocca. Non un gesto di lussuria, ma di familiarita'. "Solo questo, Rachel", rispose Jack. "Ho solo paura per il mutuo, Catherine e cosa potrebbe capitarci". Tutto qui.
Si abbracciarono. Entrambi duri come mestoli di legno.

2 comments:

gattonero said...

Buongiorno a te.

Un paio di domande:
a) perché non ci sono altri commenti?
b) per sapere dove è finito l'ufficio di Jack bisogna pagare la tangente?
c) Nel capoverso"Lo shock fu forte ecc.", Rachel chiede: "Vuoi lasciare me e Rachel?", forse intendevi "me e Catherine"?

Anche se un gatto può sembrarti rompiglione, sappi che sparargli è reato. Ho letto e mi è piaciuto assai.

Demonio Pellegrino said...

Ciao Gattonero, benvenuto in questo blog dimenticato da Dio.

a) Credo che nessuno se lo sia letto per intero. E' troppo lungo per un blog.

b) i soldi fanno sempre comodo: quanto sei disposto a sborsare (no, davvero, tra un po' pubblico il seguito).

c) hai ragione. Grazie, ho corretto.

Prefirisco i cani, ma i gatti neri sono i miei preferiti.

Grazie davvero.